Categoria: SERIE TV

  • L’invivibilità della vita

    “Dostoevskij” dei fratelli D’Innocenzo

    Apparso sul blog di Marco Ercolani

    (L’INVIVIBILITA’ DELLA VITA. Marco Sbrana – Scritture)

    L’acqua sporca di un rigagnolo. Case di lamiera che vi si affacciano. Una voce fuori campo che si commiata dall’esistenza: è la lettera d’addio del protagonista, Enzo Vitello (Filippo Timi). Ha mandato giù bastevole dose di psicofarmaci per disertare futuri incontri con la vita. In Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo si inizia che si è già finiti. È finito il mondo, è finita la luce. Il definitivo commiato è quello dell’uomo postmoderno da un mondo che non ha gli strumenti per comprendere. Non è cominciata perché è già finita. Non ci sarà ascesa, non ci sarà espiazione. Solo uno scavo nel recesso, in un abisso che ci riguarda. Enzo Vitello, il protagonista della meravigliosa serie già elogiata dai francesi Cahiers, è morto, si è suicidato.

    Anche se la mano dei registi lo trae dalla tomba. La narrazione lo resuscita. Annaspa, Enzo, il corpo smunto, macilento, che scompare nei vestiti. E si alza ed esce, laddove le spighe di grano le illumina il crepuscolo. Arranca, Enzo, fantasma di se stesso. Alle persone buone, dice la sua voce fuori campo, quella della lettera d’addio, capitano cose bellissime. E così il contrario. Lui ne è l’esempio. Cos’hai fatto, Enzo? Perché ti sei abbandonato?

    Una telefonata. Voce amica. Un omicidio, è stata uccisa anche una bambina. Enzo, stai ascoltando? Sì, sta ascoltando. Chiude la telefonata, si infila due dita in gola, vomita la sua morte.

    Tra quanto vuoi morire? chiederà Enzo all’assassino.

    Ora, risponderà questi.

    Ora non si può.

    E Timi è la putrefazione di noi tutti. Putrefazione che cammina. Uno zombie di George Romero.

    Enzo Vitello è un poliziotto; il capo, interpretato da uno splendido Vanni, gli presenta il personaggio interpretato da Gabriel Montesi. È, questi, la giovane promessa. Dunque, è un noir. Ci sono tutti gli stilemi dell’hard-boiled: il detective tormentato; il giovane rivale; il mentore; il criminale che funge da specchio. Chi è il criminale? Dostoevskij, così soprannominato per via delle lettere che lascia accanto ai corpi delle vittime. Non sono lettere autocelebrative; esprimono, bensì, il male del mondo. Enzo si ritrova in quelle parole, in quella lingua che emerge dalla carne martoriata. Un corpo, dice la prima lettera di Dostoevskij, letta da un collega di Enzo ma su cui la voce di Enzo – innamorata – si sovrappone, non è mai così vero come quando brucia. Il noir c’è; il focus è sulla sofferenza dei nostri tempi. E Dostoevskij appare come un compendio dei mali del mondo. Ci parla, ci spiega, ci traduce. Se accettiamo la sporcizia della pellicola, il sangue, l’incedere cauto della narrazione, Dostoevskij ci denuncia: siamo sporchi. Dirà Vanni che da una cantina che si vuole pulire si esce sporchi. Dostoevskij sa che abbiamo vissuto in cantina, sa quanta marcescenza abbiamo addosso, a mo’ di membrana, di patina che in toto ci avvolge. Dostoevskij conosce la nostra merda.

    Il trauma, presto detto: la figlia Ambra, che conosciamo tramite una telefonata in cui in malo modo insulta il padre Enzo. Non deve più chiamarla. Stridula la voce, è un’altra voce di pianto, di agonia, di latrato, come i cani smunti che di sovente percorrono il brullo dei paesaggi in cui Timi si muove. La geografia, una cura maniacale. La cura, quella dei D’Innocenzo, della rimozione. Il luogo in cui si svolgono le piccole grandi morti di Enzo Vitello è un nulla di spighe, un nulla di corsi d’acqua. Toponomastica assente, potrebbe essere il Texas, potrebbe essere Latina. Come il papà Goriot di Balzac, la stanza di Timi (questi spazi immensi e vuoti) di Timi parlano: ne traducono la macilenza.

    Un dettaglio, poi, durante l’esame grafologico cui vengono sottoposti uomini con precedenti penali: Timi parla con un pedofilo che si è inchiappettato due bambini. Deve essere stato piacevole, dice Timi, ma ne è valsa la pena? L’uomo (giustamente) si appella alla giustizia: ha pagato per ciò che ha fatto, e sono stati loro (la polizia) a chiedergli di venire. Sì, dice Timi, ma non bisogna mai fare quello che dice la polizia. E, in un fuori campo di eccezionale valore estetico, con un taglio di montaggio che eleva Walter Fasano a principale artista del suo campo, vediamo il sangue: Timi ha massacrato il pedofilo. Perché Timi ha massacrato un pedofilo? Lo scopriremo, perché Dostoevskij indaga senza salire, una Commedia senza Dio, una colonscopia, come quella a cui Timi si sottopone. Cioran sembra pulsare nella carne del testo filmico (la vera carne, la pellicola, come scritte a mano sono le lettere del killer): quel che esula dal sangue e dallo sperma non è che un pretesto. Di sangue e sperma si alimenta e puzza Timi, che dorme in una stanza alle cui pareti sono appese – a monito? a memento? – le lettere di Dostoevskij. Perché ogni notte, prima del sonno, ricordi questo: che la vita è impossibilità di vivere. Ed è dalla “assurda malattia di vivere”, è scritto nella lettera del secondo episodio, che Dostoevskij guarisce le sue vittime. Li guarisce, con l’atto di estrema pietà, dall’ostinazione a camminare con le ossa rotte, che si scheggiano ad ogni passo. Dice Dostoevskij alle sue vittime: Non ce la fate più, non ce la facciamo più, nessuno ce la fa più. È troppo, la vita.

    Troppo.

    E Vitello è sempre più connesso a Dostoevskij, tanto che gli scrive: “Io sarò qui a leggerti”. Ma non è il metodo di un poliziotto; ha la meglio la strategia di Montesi. Bene, dice Timi. Cosa può importargli? Cosa può importare a un cadavere animato di essere superato da un trentenne? Timi è morto al minuto uno. Timi non è nient’altro che uno spettro. Fatto di carne. La resurrezione, del resto, non è dell’anima. Ma della carne, che soffre, dispeptica, franta.

    Timi si riavvicina ad Ambra, nell’unica scena che i D’Innocenzo concedono di bellezza: Ambra che divora un bombolone. Bombolone che, su consiglio di papà, inzuppa nel cappuccino. Ma gli occhi di Timi sono quelli che hanno le fotografie dell’Ottocento: occhi che distanze siderali separano dal calore. Condannati al freddo, proseguiamo, e tutto muore, tutto muore di nuovo, perché il rancore di Ambra è troppo. Ricorda l’assenza del padre, tutto quel che di lui conosce, il vuoto. E non lo tollera. Presso il lido, le loro strade si separano. Il caos infila, scrive Dostoevskij, la città dei figli sbagliati. Il contenitore.

    Dopo aver scoperto che Dostoevskij, chiunque sia, ha vissuto in orfanotrofio, Timi lascia la squadra, perché, contrariamente alle sue disposizioni, le lettere sono trapelate, ora le possiedono i giornali. Puzziamo di male, dice Vanni, l’amico, il mentore.

    Perché hai abbandonato tua figlia?

    Cos’è Dostoevskij? Prima di essere un uomo, o una donna, è il mandato che riporta in terra, dalla catabasi senza ritorno, per compiere l’unica purificazione possibile, quella del dissiparsi. Timi è una persona cattiva. Il mio corpo, dice ad Ambra, desiderava il tuo.

    Questa la colpa. La punizione sarà sempre differita, e quindi si vivrà nell’ansia (lo insegna bene Kafka, riferimento del testo Dostoevskij, debitore alla grande letteratura del disagio, da Morselli a Céline). Enzo Vitello è malato. È un pedofilo. E ha massacrato di botte, scene fa, la parte di lui che ha ceduto alla malattia. Perché Vitello non l’ha mai toccata, Ambra. Nuovo senso, a fortiori, assumono i filmini di Ambra da piccola (chi è più pericoloso di un voyeur?) e il video porno che Ambra ha inviato alla polizia per scandalizzare il padre. Ma Ambra si infrange, ora. E papà deve infilarle due dita in gola perché – in una scena che sa di regressione alla prima infanzia – la figlia gli possa vomitare addosso i farmaci con cui voleva porre fine alla vita indecente.

    Quando Vitello trova Dostoevskij – che è una giovane chiamata Patrizia Piscopo – la morte si profila come avvenire che conforta. L’atto del suicidio, interrotto dal mandato della narrazione (ed è anche un discorso metacinematografico), Vitello lo esegue tramite Patrizia, obbligandola a scrivere una lettera in cui simula il suo omicidio, dopo averle cavato un occhio. Poi la uccide. Sono morti entrambi, ora. Ma non ci possono essere testimoni. L’erranza del cadavere-Vitello deve essere protetta. E Vitello uccide un uomo che passa in macchina vicino al covo del killer ucciso.

    Era un bravo poliziotto, viene detto, alla fine, di Vitello.

    Vanni, amico di un’amicizia che sopravvive alla morte, cerca con Ambra il corpo di Enzo. Sulla sponda del fiume camminano. Dostoevskij è la vecchia storia del buio e della luce, del male e della colpa, della redenzione e della pace chimeriche. Ambra, nel corso d’acqua che brilla al primo vero sole mostrato dai D’Innocenzo, vede un pesce.

    Qualcosa di vivo c’è. E forse basta. Forse, in questo inferno di fango che puzza dei morti che ci portiamo in spalla, basta esserci. Non che serva, ma forse è bello. Come gli inutili pesci che corrono e, nella loro inanità, sono stupendi.

    L’ho visto anch’io, dice Vanni.

    Anche noi, in questa colonscopia, abbiamo intravisto qualcosa. Del lirismo, un canto, una poesia. Grazie al colonscopio, il cuore di un uomo.