Categoria: FILM DELL’ANNATA

  • Nel sogno dentro il sogno, una storia di crescita – “Alpha” di J. Ducournau

    (articolo apparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione al seguente link: ODISSEA)

    L’ultima volta che Julia Ducournau ha presentato un film Cannes – Titane – le è stata assegnata la Palma d’Oro.

    Torna quest’anno con un film che, a suo dire, serbava da prima del trionfo.

    Sabbia. Vento. Vento rosso. E sembra marmo la superficie crepata su cui scorrono i titoli di testa ma, quando la macchina da presa affonda – e affonda e affonda – l’immagine prima è il buco su di un braccio. E il braccio – il braccio di un eroinomane – è di buchi percorso. La mano di una bambina disegna segmenti che uniscono i buchi: “Così è più bello,” dice la bambina. Si chiama Alpha, è la protagonista, adesso ha cinque anni. E quando lo zio – Amin, si chiama – apre la mano che rivela una coccinella, è di una bimba il meravigliarsi.

    Lo stacco è netto. Siamo a una festa. Adolescenti. Droga e alcol. Ma quel che è peggio è un ago sporco che segna una A sul braccio di Alpha – ora tredicenne. Questo l’inizio di un film che non coccolerà mai lo spettatore. Lo assedierà di domande. Ducournau crea un muro; sta a noi abbatterlo. Tale il rapporto tra autrice e ricettore. Reciprocità: sicché fin dal desiderio della regista di non spiegare mai (così come faceva Bunuel) si crea un cinema necessario, che è il cinema politico – politico perché relazionale, politico perché interroga e non fornisce risposta. Ma dà, Alpha dà tantissimo a chi accetta il patto.

    Per capire quale sia il patto, bisogna definire un minimo di trama.

    Gira un virus – allegoria dell’AIDS – che si trasmette come l’AIDS e che come l’AIDS crea terrore. L’ago del tatuaggio era sporco. Il film racconta la storia di emarginata di Alpha – a scuola ostracizzata – e dell’altrettanto emarginato Amin, zio di Alpha.

    Non si creda di poter interpretare il film dopo una sola visione.

    Ma, alla seconda, si ricavano indizi.

    Alpha, terrorizzata, ascolta la madre parlare con qualcuno che non vediamo e dirgli che non ce la fa più: prima con lui, ora con la figlia. La madre – medico – è stanca, dice, di lottare.

    Così viene convocato Amin, eroinomane invalidato dai tremori di un indotta astinenza per ripulirsi il sangue.

    Alpha è sovrabbondante di linee narrative. Questo l’unico difetto. Titane era una linea retta; Alpha è un film rizomatico. Barocco, forse. Sembra di sentire Ducournau e il suo desiderio (il film ha molto di autobiografico) di essere totalizzante, di voler creare una specie di romanzo-mondo à la Pynchon ma che si concentri sul conetto di trauma.

    Amin – capiremo – non ha mai raggiunto Alpha. È morto: il virus – che trasforma la pelle dei malati in marmo – l’ha ucciso otto anni prima che Alpha tornasse a casa col tatuaggio. La morte di Amin – smagrito, emaciato, tremante, ironico e sordido – viene mostrata e risemantizza il testo prima delle ultime sequenze. Se Amin è morto, chi abbiamo visto nella linea narrativa presente, quella del tatuaggio?

    Non è domanda che sia pertinente.

    Ché il trauma ha una logica indipendente, ché il trauma vive nella circolarità, nella reiterazione. Non si deve pretendere, dice Ducournau, che il trauma combaci con le regole della mente sana; i film che sovrappongono – sciatti – il trauma alle regole del mondo sono disonesti. Pur di non disorientare, molti registi inscrivono il trauma nella sfera della comprensibilità. Non Ducournau, che attraverso la figura di Amin rende carne, incisione, ferita, ballo il trauma, il quale trauma non perviene all’intelletto bensì arriva dove dovrebbe arrivare in ogni suo racconto: allo stomaco.

    Ma il fatto che, nella scena con Beethoven (il pranzo di famiglia), nessuno a parte la madre paia notare Amin può, alla seconda visione, aggiungere qualcosa. Ma questo qualcosa non è necessario.

    Tutto il necessario colpisce alla prima visione. È accessoria l’intellettualizzazione di quanto vediamo nel film.

    Ducournau – come in Titane – tratta la musica come personaggio agente, parlante. The Mercy Seat di Nick Cave (splendida versione al piano) accompagna il ballo spasmodico (così Breton: “La bellezza sarà convulsa o non sarà”) di Amin e Alpha, tra i malati di marmo, tra le luci intermittenti di una discoteca di periferia. Scena gemella del ballo su She’s Not There in Titane. Lunga canzone, lunga sequenza. La macchina a mano che non si stacca dai volti, ma li segue e ce li sbatte davanti, perché siamo davanti alla delicatezza del macellaio, non a quella dell’architetto, siamo la carne, siamo il marcio che ci scorre nelle vene, siamo fluido corporeo. E scorriamo. Vediamo lo scorrere delle cose come in Fellini, l’impermanenza, vediamo Eraclito. Ma non è un fiume cristallino; qui c’è sangue (come la superba scena in piscina), qui c’è mucillagine, i pesci affogano.

    Così, tra un tentativo (Alpha tredicenne) di capire se sia o meno malata, tra una scena e l’altra (Alpha a cinque anni) di Amin che muore di eroina e del virus il cui rimedio ha trovato proprio nell’overdose, il fluire della vita e di un film che oscilla, appunto, tra l’ineluttabile proseguire, incessante andare del tempo, e la fissità del trauma.

    Il professore di Alpha recita una poesia: un sogno dentro un sogno, dice l’uomo in riva al mare, in pena per una “spietata onda” che ha mietuto (dice il professore) “almeno una vittima”.

    La domanda è su chi sia la protagonista del film. Detta domanda si intreccia al discorso sul fluire. Non c’è fissità nemmeno nel punto di vista. Non c’è arresto nemmeno nella prospettiva. La vita scorre, ci scambiamo fluidi, le carni si fondono, e la vita non designa punti fermi. Sicché sì, seguiamo Alpha, ma risulta chiaro che il trauma è quello della madre.

    Che, nel finale, porta Amin a casa. Alpha esce dall’auto, osserva i due. E Amin si dissolve in polvere mentre il vento rosso (una leggenda berbera: vento rosso scorre nelle vene di un malato che deve essere purificato con l’acqua) si abbatte contro il viso di Alpha in lacrime.

    Il rapporto tra Alpha tredicenne e Amin è un sogno: la scena del soffitto che schiaccia Alpha soffocante; la corsa lungo il campo da calcio (montaggio parallelo con quella con sotto Nick Cave). Ma non è il sogno di Alpha. Sogno dentro il sogno – così la poesia – dopo una pitiless wave che ha ucciso almeno una persona (Amin).

    But who is the dreamer?

    Se per rispondere a questa domanda in relazione a Twin Peaks ci vorranno decenni, possiamo, per Alpha (film più classico di Titane, meno Cronenberg e più dramma familiare, malgrado la struttura più complessa, come detto rizomatica) dire che la sognatrice è la madre.

    Come si supera un trauma? Si può superare un trauma?

    La cesura, forse, può risultare salvifica.

    La madre – medico, ricordiamolo – non ha saputo salvare il fratello: né dall’eroina né dal virus. Colpa, infinita colpa, come se lo avesse ucciso. Al che, quando Alpha rischia di replicare l’orrendo già vissuto, la madre convoca il fratello e si mette a sognare.

    Ma non basta.

    Due scene.

    Al pranzo di famiglia, Alpha chiama spesso la madre perché la salvi dalla confusione (e dal martellante sottofondo beethoveniano). Così la madre: “Anch’io ho una vita, Alpha”. Frase forte, inadatta al contesto. Esagerata, no?

    Indicativa senz’altro.

    Seconda scena, appena prima del finale. Madre e figlia condividono il letto singolo di Alpha. E Alpha: “Mamma, hai fatto tutto bene”.

    Titane era joyciano perché sul padre; Alpha è sulla madre. Che ha una vita propria, di cui non conosceremo mai tutti i dettagli. E che deve essere perdonata.

    È la storia di molte famiglie distrutte, per esempio, dalle malattie mentali. Purtroppo parlando per esperienza, ipotizziamo un figlio con malattie psichiatriche e una madre che lo vuole salvare. Immaginiamo la simbiosi. Immaginiamo il privato della madre: quella volta che uno sconosciuto l’ha molestata e lei non è più riuscita a entrare in quel parco; immaginiamo la depressione in prossimità degli esami, la costrizione a letto e il Prozac; immaginiamo l’invidia per una sorella più brava e più magra. La cesura – che sarà la salvezza sia per la difficile adolescente Alpha sia per la madre – si ottiene quando il figlio lascia andare. Lasciar andare è riconoscere l’impossibile.

    Abbiamo albergato nel ventre di nostra madre. Ma nostra madre è un Altro. Riconoscerla come Altro da sé è riconoscere l’impossibile, riconoscere i suoi traumi, e assolverla.

    Come fa Alpha, in questa splendida storia di formazione.

    Precoce crescita, ma necessaria.

    Dapprima è la vita, la prima, il cordone; la vita vera è prescindere dalla mamma.

  • “Parthenope” di Paolo Sorrentino – Sul concetto di trama

    (articolo comparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione – pagina raggiungibile al link: ODISSEA)

    Davvero un testo filmico non è in grado di sostenersi con la pura forma, col puro segno? Pensiamo a T. Malick o a B. Tarr, ma anche a Lav Diaz. Lunghi film che aboliscono l’intreccio in virtù della pura estetica. La forma, nei film di Diaz, è contenuto, così come nell’opera magna di Tarr, Satantango. Sono, questi, film “difficili”. A dire: inaccessibili se in un film si cerca l’intreccio, la trama. Ma perfettamente godibili se si ammette che il testo possa basarsi unicamente sulla bellezza delle immagini. L’ibrido è il problema.
    E veniamo a Parthenope di Paolo Sorrentino (2024, presentato a Cannes). Sorrentino pecca perché non radicalizza – come invece fanno i sopracitati. Parthenope sarebbe stato altro (leggasi “meglio”) se Sorrentino avesse deciso di prescindere da qualsivoglia forma di storytelling. La mancata radicalizzazione produce, ripeto, un ibrido malfunzionante, che ora vuole essere pura forma, ora vuole narrare. Ed è qui l’incertezza di uno dei più grandi registi nostrani. La tendenza a produrre film senza trama (e vivaddio) che, però, volendo anche raccontare (come se il cinema avesse ancora bisogno di storie), falliscono. Mi spiegherò meglio più avanti.


    Nata dal/nel mare, Parthenope è bella e ha la risposta pronta: qui si esaurisce la caratterizzazione. Ed è un problema. D’Antonio, (non più Luca Bigazzi) illumina scene e corpi e luoghi estremamente suggestivi, che in certi momenti sembrano far virare il film verso la videoarte. Magari fosse videoarte. E invece, dopo uno splendido ballo a tre con Cocciante di fondo, si torna allo storytelling. Di per sé non sarebbe brutto. Il cinema di Fellini si basa su questo: la storia è portata avanti da infinite divagazioni (un cinema rizomatico), le scene godono di autonomia, l’elemento onirico fa da padrone e l’intreccio è abolito. Cosa manca a Sorrentino? Forse un Flaiano o un Guerra a co-sceneggiare.
    Parthenope è solo, soltanto ed esclusivamente un bel corpo che attraversa bei paesaggi. La sua essenza fantasmatica (mitologica, come il titolo dichiara) funzionerebbe se fosse – la ragazza interpretata da Celeste Dalla Porta – personaggio vettore; come protagonista non funziona. In quantoprotagonista, l’essenza fantasmatica è solo vuotezza e mancata caratterizzazione in fase di script. I film a episodi di Fellini (il paragone è naturale, e non è il becero discorso sul presunto “furto” o “plagio”; è ascendenza – cosa legittima ove non doverosa), ecco, i film a episodi di Fellini funzionavano perché il protagonista, anche quando circondato non da personaggi ma da archetipi, era adeguatamente caratterizzato, abbastanza caratterizzato perché il pubblico ci si affezionasse. E Sorrentino è spesso (non sempre) riuscito in questo. Accetto che Jep Gambardella (La grande bellezza) sputi sentenze e si muova senza meta tra paesaggi autonomi. Perché? Perché è un personaggio davvero scritto. Non posso accettare le sentenze di Parthenope, né il suo vagabondare. Perché Parthenope non esiste, non è scritta; di lei – ripeto – si sa solo la bellezza. E non basta. I film a episodi funzionano solo se il nucleo è solido. Guido Anselmi di 8 ½ , Gelsomina de La Strada o Marcello de La dolce vita. Personaggi fortissimi (diciamo indimenticabili) che non sono mossi dai modelli campbelliani o vogleriani di viaggi dell’eroe e altre capsule storytellari, ma che sono così forti – così sinceri – da farsi seguire nel loro andare senza destinazione.


    Parthenope funziona quanto a ritmo, a mio avviso. Dovremmo isolarlo dal coacervo di futilità per coglierlo; facciamolo. Parthenope ha l’andamento di una sinfonia. In questo è un grande testo: nella gestione del ritmo (l’ambizione schopenhaueriana, propria a tutte le arti, di eguagliare la musica). Il ritmo languente restituisce il nucleo tematico della transitorietà, dell’impermanenza. Funziona il Cheever di Gary Oldman: goffo, comico, disperato, tragico, che non si regge in piedi. Sempre funziona Sorrentino quando si concede alla commedia. Basti ricordare quel gioco melò e grottesco tra il protagonista de L’amico di famiglia e la madre che defeca in una bacinella ai piedi del letto. Funziona meno (e dispiace, vista la prossimità di film attuali come Povere Creature! di Lanthimos) l’assenza di figure femminili tridimensionali, drammaticizzate: Isabella Ferrari e Luisa Ranieri servono solo alla fauna grottesca di Sorrentino. E Parthenope è un bellissimo involucro che non contiene altro che sentenze. Non si chiede (tutt’altro) classicità, ma un artista che desideri fare più di una trama deve saper creare nuovi baricentri, solidi tanto quanto il Vogler. Manca, in senso di Duchamp, un’idea di progetto, un nucleo che, in autori “non convenzionali”, sostituisce – e fa qualcosa di migliore – della linearità che, se percorsa, e qui Sorrentino ha ragione, è noiosa e mendace.
    Le Filippine per Diaz, il mondo rurale per Tarr, la guerra per Malick.
    In Parthenope, una ragazza ridotta alla sua straordinaria bellezza e ad aforismi che, innaturali, fanno emergere non la voce del personaggio ma quella dell’autore, il cui vero difetto non è stato imbarocchirsi, ma non radicalizzarsi a sufficienza.

  • Generazione di equilibristi – Nota critica su “The Sweet East” di Sean Price Williams

    (articolo comparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione – pagina raggiungibile a questo link: ODISSEA)

    Bisogna diramarsi, bisogna scappare.
    L’utilizzo della macchina a mano ha duplice funzione: restituire, in un primo momento del film, certo tipo di naturalismo; poi, quando il viaggio di Lillian si fa sempre più picaresco, assolve la funzione di disorientare lo spettatore tanto quanto è disorientata la protagonista.
    Film del 2023, esordio alla regia di Sean Price Williams, The Sweet East inizia con la pateticità del maschio. Lillian è a letto col suo fidanzato, hanno appena fatto l’amore; lui – giustamente ridicolizzato da un regista che, vedremo, non tentenna nel prendere posizione e quindi nel politicizzarsi – gioca col preservativo pieno di seme: forse Lillian lo vuole tenere, il condom, come ricordo.
    E poi la gita di classe a Washington DC. E, da quella, Lillian scappa. Si allontana dal becero, dal mediocre. Il film seguirà le tappe del suo viaggio: dapprima accolta da un gruppo di punkabbestia, userà un cinquantenne di estrema destra (conosciuto a un evento à la MAGA) come sugar daddy, per poi scappare – di nuovo – e diventare protagonista di un film; sul set viene però raggiunta dai MAGA, e trova rifugio presso un capanno, proprietà di un gruppo di fondamentalisti islamici. E Lillian scappa anche da loro, ma fa freddo, e sviene, e i sacerdoti del monastero presso cui ha ceduto hanno chiamato la polizia. Lillian, infine, torna a casa. Riaccolta dalla famiglia, il tg dà la notizia di un attentato: migliaia di morti in uno stadio. Lillian esce di casa, sguardo in camera, e scompare. Quanto rimane è solo la consunta bandiera americana.
    La solitudine è viaggio dentro di sé. Evadere è setacciarsi – sembra dire il film – e la vera evasione è cercare in sé e trovare un altro.
    Williams non è politicamente ambiguo: riconosce spessori e superficialità della GEN Z.
    The Sweet East ha una strana potenza, che trae in toto dal surrealismo. Gli eventi picareschi, circensi, grotteschi, improbabili, si susseguono senza essere preparati; semplicemente accadono. Questo è il surrealismo: assenza di setup, assenza di spiegazione. Lo storytelling si basa sul setup, la semina di dettagli che vengono ripresi (payoff) nel corso del testo. Il surrealismo abolisce i nessi causali. Perché surrealismo è vitalismo: è la vita che ci prende con frenesia, che ci rapisce – nell’incubo tanto quanto nel sogno migliore. L’intero film di Williams è un’immersione non protetta nell’altrove che una giovane cerca sempre, inevitabilmente, in contrasto con l’aurea mediocritas della sua deiezione. L’abolizione dei nessi causali fa tornare alla mente Alice nel paese delle meraviglie, e l’analisi di Deleuze in Logica del senso: non più kronos – il tempo lineare – ma l’evento puro, che balza fuori dalla catena temporale e causale, il tempo degli stoici, l’aiòn.


    Il disorientamento – di norma – funziona se c’è un ancoraggio, non se si inizia si procede e si finisce con il disorientamento. The Sweet East sceglie però consapevolmente di rappresentare il caos senza appigli narrativi. Pare che il regista non sia interessato alla vicenda ma alla restituzione di un clima.
    Si parla di noi, della GEN Z, del capitalismo liberale. Mercificati e reificati, viziati dalla cultura capitalista, la nostra unica speranza è la rinuncia alle radici. Il solo modo per scappare dalla macchina (ancora Deleuze) è non porsi più come soggetti (di qui l’assenza di appigli). E la generazione Z è nel caos di un equilibrismo annaspante, giovani che balzano da una parte all’altra, da un limite all’altro della vita, tra l’oblio e l’affermazione, tra un cinquantenne che usa le ragazze per ricreare Lolita a un mondo che vuole solo efficienza e corsa.
    Cambio, mi sposto, muto forma, vestiti, attitudine, ma davvero il mondo cambia se io a cambiare continuo? Il desiderio di fuga si accompagna – sembra dire il film – alla impossibilità del cambiamento. E viene, nel finale di The Sweet East, la tristezza di ritrovare la solita, vecchia mediocrità, laddove il mondo aveva fatto promesse. È l’infelicità della generazione z.
    Uno spasmodico movimento che è un divincolarsi; inutile, perché  lacci ci legano al letto della nostra cameretta, da cui forse non usciremo mai davvero.

  • Appropiarsi della realtà

    Wes Anderson e “La trama fenicia”

    (articolo uscito per la rivista “Odissea” di Angelo Gaccione. Per leggere, cliccare sul link qui sotto:

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