Autore: Marco Sbrana

  • The Master – Potere e dialettica

    (Testo apparso per la prima volta su “Odissea” di Angelo Gaccione al link

    ODISSEA)

    Joaquin Phoenix sembra Gulliver, in una delle prime scene di The Master, quando Paul Thomas Anderson lo inquadra dall’alto, sulla barca, con l’equipaggio, presso la base dell’albero, che si agita. Il mare è in fermento sotto il cielo terso che annuncia la fine della guerra. Cosa vedono, nelle macchie di Rorschach, i reduci?

    La scena che raggiunge il maggior grado di sintesi formale nel film di PTA è quella dove Quell (Phoenix) costruisce una scultura di sabbia, una donna, tra le cui gambe crea un varco da penetrare. E che penetra, per poi stendersi accanto all’imago e guardarla con tenerezza mentre il sole declina.

     Il reduce, al test psicologico, risponde: “Un cazzo”, “Una figa” o, alternativamente, “Un cazzo che entra in una figa”.

    Quell è il disadattato novecentesco, spaurito dopo la fine della guerra che gli ha conferito un ruolo sociale e che, concludendosi, gliel’ha anche tolto, dandolo in pasto alle fauci del mondo, conficcandogli coltelli nella psiche.

    Seguiamo il corpo magro e curvo di Joaquin Phoenix tentare la carriera di fotografo. Ma, attaccabrighe forse reso tale dalla guerra, fa rissa con un cliente e subito la possibilità si frantuma. È poi nel niente di qualche campagna quando prepara un intruglio alcolico che dà a un vecchietto orientale. L’uomo lo beve e muore, sicché Quell scappa (un carrello orizzontale maestoso: campagna al crepuscolo, corpo che corre), e raggiunge la nave di Lancaster Dodd, l’ultimo grande personaggio del compianto Philip Seymour Hoffman.

    Il testo indaga la loro relazione. Da una parte, un disadattato, un inetto, un perdente, un abbandonato; dall’altra, il capo di una setta. L’iniziazione è forse tra i dialoghi più memorabili del ventunesimo secolo. Dodd ha preso in simpatia Quell, anche per via dell’intruglio che questi preparerà per l’equipaggio. Ma deve accedere alla setta, pungersi per entrare nella cosca, perché di quello, capiremo, si tratta: di mafia che agisce sulle menti, di una mafia del plagio mentale. Senza sbattere le palpebre (se le sbatte, si ricomincia daccapo), Joaquin Phoenix deve rispondere alle secche domande di P. S. Hoffman: nome, cognome, e se ha mai avuto rapporti sessuali con membri della sua famiglia. Domanda cui Quell dà risposta affermativa: con sua zia, più volte, perché? Perché era bella. Ma qual è l’amore della sua vita? Una ragazza molto più giovane da cui la guerra lo ha separato. Perché non è da lei? Dodd ripete: Perché non è da lei? Perché sono un idiota! sbraita Phoenix.

    Martello sul cranio, palpeggiamento della materia grigia, plagio, tortura psicologica, ricatto. Questi i metodi di Lancaster Dodd. La cui teoria è semplice: viviamo più vite e c’è un modo per ricordarle, cosa che può appianare la sofferenza emotiva. Un modo per ricordarle è, innanzitutto, pagare per una seduta di reminiscenza, e magari acquistare il libro di Dodd.

    Che ha una moglie, Amy Adams, forse la vera mente, di certo più evoluta di Hoffman, animale evirato che, nell’impossibilità strutturale di aprirsi a un rapporto dialettico, si fa masturbare dentro un lavandino.

    E di dialettica si parla. Quella hegeliana, puramente hegeliana. Ma, meglio ancora, dell’impossibilità del rapporto dialettico, del rimanere incastrati nel gioco di potere servo-padrone unidirezionale. E di quanto il rovesciamento dei ruoli, che a tratti si intuirà, sia evento cataclismatico. The Master risulta essere una preziosa pellicola sull’ossessione di tutto il cinema di Anderson, ossia, appunto, la dinamica di potere: l’assoggettamento de Il petroliere; i capovolgimenti, per chi sta sopra e chi sta sotto (ma a letto, forse, solo alla fine), in Licorice Pizza; il rapporto filiale nel cui uno, tra padre e figlio, si deve inchinare (Magnolia, dove è anche il padre che abusa). Relazioni disfunzionali all’interno di una società sporca di capitalismo tardoindustriale dove la dialettica per la sintesi è esautorata e c’è solo spazio per il dominio, per l’ossessione del dominio sull’altro, oggetto di cui disporre, non all’interno del quale perdersi. Conflitto eterno senza risoluzione.

    Così, e forse più esplicitamente che negli altri titoli, in The Master.

    Quell e Dodd vivranno accanto per pubblicizzare la setta di questi, tra tentativi di confutazione (tanto sono assurde le teorie del capo, del maestro); un soggiorno in prigione; letture; sedute dove donne ricche pagano per fingere di ricordare vite precedenti, annuendo alle interpretazioni infondate di Dodd; esercizi spirituali consistenti nel chiudere gli occhi e camminare avanti e indietro, toccando, mani tese, i lati della stanza; potere, e di nuovo potere.

    Finché Quell non si stanca, e fugge.

    Finché Quell, incarnando la tesi (perché è un film a tesi, manifesto di una poetica intera) del testo, non capisce che non può rinunciare alla guida di un maestro, e torna da Dodd implorando, ma viene rifiutato.

    L’ultima scena vede Quell fare sesso con una ragazza e, quasi per attizzarsi, chiederle di non sbattere le palpebre mentre le farà delle domande: Come si chiama? No, ha sbattute le palpebre, la ragazza. Come ti chiami? Come ti chiami?

    Perché forse, solo l’altro sa dirci il nostro vero nome. Ma solo se l’altro è vera alterità, e non un totem a cui genuflettersi. Ci sarà rapporto, ci sarà politica e, forse, nel mondo, più pace, quando l’Io e l’Altro si specchieranno, si riconosceranno, senza ridursi a merce di scambio.

    Perché, cantava De André, “bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.

  • L’ambiguità della pausa-sigaretta – su “Coffee and Cigarettes” di Jim Jarmusch

    (articolo comparso per la prima volta su “Scritture” di Marco Ercolani a questo link

    LA PAUSA-SIGARETTA. Marco Sbrana – Scritture)

    Coffee and Cigarettes (2003) di Jim Jarmusch va forse rivisto fino a conoscerne le battute a memoria perché sia reso possibile il districarsi tra i vari cortometraggi che lo compongono in cerca di un motivo ricorrente che ne giustifichi l’apparente gratuità.

    I corti sono undici; autoconclusivi, attori diversi, diverse le storie. Le location, pure, si assomigliano, perché i protagonisti eseguono la stessa azione in tutti e undici i cortometraggi: accompagnano sigarette a tazze di caffè.

    Il primo corto, con protagonista Roberto Benigni e Steven Wright, semina i leitmotiv che ritroveremo nel corso del testo: lo scambio di persona; l’alienazione; il senso che la vita si stia svolgendo in un luogo che non è quello in cui ci troviamo. Dopo una conversazione assurda tra i due personaggi sull’apparente capacità del caffè di “accelerare i sogni” che, nello svolgersi, “vanno come a Indianapolis”, Wright denuncia il suo malcontento: non vuole andare dal dentista. Benigni, invece, ama andarci: lo sostituirà, andrà lui al suo posto. Tremanti per le decine di tazze di caffè che hanno ingurgitato e con il cuore a mille della ventesima sigaretta in mezz’ora, si separano, felici e contenti.

    L’altro tema che ritroveremo è la mancata adesione alla vita, il divorzio che lamenterà il personaggio di Taylor nell’ultimo corto. Testo denso di simbolismo, opera aperta come sono tutte quelle di Jarmusch, la responsabilità quasi totale della decodifica, anche erronea, è dello spettatore. Questa mancata adesione alla vita si traduce con l’assenza di desiderio di vivere, che porta all’improbabile scambio di persona.

    Nel corto Twins, la confusione identitaria è al massimo grado: la gemella dice di “odorare” del gemello che, a dire di lei, si è messo la sua camicia e le sue scarpe; dovrebbe trovarsi uno stile, anziché plagiarla. Naturalmente, scarpe e camicie sono identiche. Segue il corto con protagonisti Iggy Pop e Tom Waits (nei panni di loro stessi), che affronta il tema, collaterale a quelli che abbiamo delineato, della volontà, in un vivere che non ci piace, di perderci nella vita, di dissiparci. Perché la cosa bella, dice Tom Waits, di aver smesso col fumo è che, qualche volta, una sigaretta te la puoi fumare. Capiamo, noi spettatori dotti: né Iggy Pop né Tom Waits hanno interrotto il loro tabagismo. E si distruggono i polmoni fumando con gusto. Alla stessa stregua, i protagonisti del quarto corto. Il primo rimprovera al secondo di bere troppi caffè, ne morirà; l’altro, di fumare senza misura.

    Esemplificativo è il cortometraggio numero cinque. Una donna bellissima beve caffè, poco zucchero, e sfoglia una rivista di armi e di motociclette. E qui il decodificatore che è in ogni pubblico comincia a chiedersi che testo stia leggendo. Cos’è Coffee and Cigarettes? Un momento di pausa dalla vita, un film su ciò che interrompe la vita, un film su ciò che accade mentre la vita – registicamente fuori campo – seguita senza di noi. Sicché la backstory della donna è lasciata solo all’intuizione, non viene approfondita. Perché non è importante. È importante solo che lei, da quella vita presumibilmente avventurosa, si sia presa una pausa, abbia scelto un pur breve divorzio. Così nel corto a seguire, dove è palpabile che i due protagonisti abbiano conti in sospeso, ma dove è chiarissimo che non abbia importanza.

    Coffee and Cigarettes riesce a far avvertire il peso gravoso della vita che incombe, che circonda e che, una volta conclusa la pausa sigaretta, ricomincerà a divorarci. È un film sulla sospensione: si sospende il lavoro, si sospende il disprezzo (vedi il corto con Cate Blanchett in doppio ruolo), si sospende l’emozione per trarsi fuori dalla vita grama e aspettare, deputare foss’anche solo dieci minuti a un ozio che non include in sé la vita, che la vita la lascia fuori, così gravida di sofferenze indicibili, un ozio, una pausa che ci permetta di sputare parole vane, discorsi senza capo né coda, ma che pure costituiscono il grande discorso del mondo, e che la bobina di Tesla (introdotta nel corto numero otto e poi ripresa nel finale) non può ignorare, se davvero, come voleva il genio, la Terra è un conduttore di risonanza acustica. No, la bobina di Tesla, che il film simboleggia, non può ignorare l’inanità dei discorsi che sputiamo quando ci esautoriamo dal tessuto della vita che opprime.

    E poi di nuovo scambi di persona negli episodi divertentissimi con Alfred Molina e Bill Murray, rispettivamente terzultimo e penultimo cortometraggio.

    È solo a fortiori che si dà un senso a queste storie che come filo rosso (immediatamente ravvisabile) hanno le parole del titolo. E solo studiando il cortometraggio di chiusura.

    Due vecchi operai. “Taylor”, chiede quello seduto a destra, “stai bene?”

    “Non tanto. Mi sento divorziato dal mondo.”

    E Taylor cita Mahler, il lied che dice: Del mondo ho perduto ogni traccia.

    Coffee and cigarettes essendo un testo sull’alienazione, propone, in quest’ultimo, triste, episodio, un modo per risolvere il divorzio (Camus, Sartre): porci noi come bobina di Tesla e, nel soffocante vociare del mondo, essere ricettori anche della musica che il mondo emette. Ma è bastevole questo sforzo per salvarci? Pare di no, perché i due vecchi operai sono costretti a fingere che lo squallido caffè (in bicchieri di plastica) sia champagne, per tollerare una pausa troppo breve. Perché la pausa è ambigua per natura: se, da un lato, ci esime da una vita “tristi come chi deve”, dall’altro ci esime dai piaceri che la vita dà. L’alienazione è connaturata all’individuo postmoderno della società tardoindustriale, non vi sfugge mai; ma quando l’alienazione diventa scelta per sopperire alle mancanze? Quando, a fronte delle orribili carenze dell’esistere, ci chiamiamo fuori dalla vita, che ne è di noi? I due operai brindano con lo champagne immaginato e, dopo che il lied di Mahler ha risuonato nello spazio, provenendo, ovviamente, da un campo non inquadrato (mai altro filma Jarmusch che lo spazio necessario a riprendere i caffè e le sigarette), Taylor chiede di essere svegliato non appena la pausa finirà. Ma ha solo due minuti per dormire, gli dice l’altro. Taylor, pure, non lo sente: ché dorme di già.

    E, ora, le notizie è la voce fuori campo che chiude il film e dà avvio ai titoli di coda. Rumore ronzante di radio. La vita non è cessata, malgrado gli sforzi che i personaggi hanno fatto per accomiatarsene. Il mondo ha seguitato la sua corsa con noi dislocati. La vita era altrove e succedeva mentre bevevamo caffè e fumavamo sigarette, nel limbo alienati, incerti se essere agenti nel mondo o soggetti passivi di una vita che, il regista di Solo gli amanti sopravvivono lo sa, è troppo complicata, troppo dolorosa, una vita che è troppo.

  • Due uomini in un ranch

    Due uomini in un ranch

    Su “Strange way of life” di P. Almodòvar

    Apparso per la prima volta sul blog di Marco Ercolani alla pagina:

    DUE UOMINI IN UN RANCH. Marco Sbrana – Scritture

    Marco Sbrana

    Due uomini in un ranch – note su Strange way of life di Almodòvar

    Lo sgangherato cortometraggio western di Pedro Almodòvar racchiude in mezz’ora la poetica del grande regista, il cui cinema è da decenni elevazione del dialogo (financo nell’ultimo La stanza accanto) a cuore pulsante del testo filmico, in quanto detonatore e deterrente di emozioni. In Tutto su mia madre,lo scavo nel passato della luttuosa protagonista avveniva tramite gli scambi di battute con le donne che ne avevano segnato l’esistenza. Lo stesso accadeva nel felliniano Dolor y gloria, dove il rapporto tra Banderas e l’ex attore feticcio avveniva tramite la rievocazione verbale, così come quello tra il protagonista e la vecchia fiamma. Un altro racconto di vecchie fiamme è il corto Strange way of life. Vecchie fiamme, ritorni, nostalgie e futuri possibili esautorati dal tempo.

    È di verbo e fragilità maschile che Almodòvar connota il western, un genere che più che mai oggigiorno può avere qualcosa da dire. L’evirazione simbolica, la diseducazione che porta alle tragedie e il turbamento del maschio erano al centro anche dell’altro western atipico, quello di Jacques Audiard, I fratelli Sisters. Almodòvar compie un’operazione simile a quella del francese. Raccoglie le ceneri del western classico e, capovolgendo gli archetipi, immette nella cornice, appunto, del western un dramma del sentimento, quasi da camera per via dei pochi interni utilizzati e dell’indugio sui suddetti.

    Il maschio à la Clint Eastwood è una chimera. Gli occhi stretti, i delta di rughe, la prontezza nello sfoderare la pistola. Sono, queste, caratteristiche di un maschio mummificato. Il maschio di Almodòvar è franto fin dal primo respiro del testo, quando vediamo Pedro Pascal che, per – scopriremo – acciacchi alla schiena, arranca col suo cavallo in una prateria dove la profondità di campo è mantenuta quasi sempre altissima, sicché gli sfondi sono tutti perfettamente a fuoco. Il maschio che il regista ci presenta si affatica – ironia e visione autoriale – nell’agito che più dovrebbe essere suo proprio: il cavalcare. Cos’altro fa un cowboy?

    Padro Pascal interpreta Silva, che dopo venticinque anni si presenta in una cittadina presso la frontiera col Messico nella quale lo sceriffo, un altrettanto distrutto Ethan Hawke, si sta occupando dell’omicidio di una donna.

    Pascal e Hawke sono stati amanti, venticinque anni fa, per soli due mesi. Ma ricordano il tempo trascorso a godere l’uno dell’altro. Più Pascal che Hawke, il quale spesso è inquisitorio e chiede al primo se non stia mentendo, quale sia il vero motivo della visita. La genialità narrativa di Almodòvar si coglie retrospettivamente, in Strange way of life. Perché nel momento in cui, al tavolo riccamente imbandito dello sceriffo Jake, i due vecchi amanti consumano una cena con “stoviglie color nostalgia”, entrambi sanno la verità, il motivo vero della visita di Silva dopo un quarto di secolo. Eppure, Almodòvar differisce il disvelamento per indugiare sui due corpi che, ritrovandosi, ritrovano l’uno la carne dell’altro. (Strepitosa idea di regia quella di inquadrare il didietro di Pedro Pascal, coperto dai pantaloni, per poi, con un morbido stacco di montaggio, riproporre la stessa figura ma nuda, momento postcoitale.)

    Silva è tenero; Jake è diffidente. Silva parla di quei due mesi come se fossero stati gli unici due mesi che abbia veramente vissuto; Jake dice di essi che sono stati follia di due ventenni, qualcosa da dimenticare, qualcosa di irrilevante. E si scosta scontroso, Jake, quando Silva gli avvolge attorno al corpo l’asciugamano dopo che è riemerso dalla vasca da bagno.

    Il primo quarto d’ora del cortometraggio presenta la svolta: la donna assassinata è la vedova del fratello di Jake, che aveva un rapporto violento con il figlio di Silva. Ecco perché Silva è lì. I due vecchi amanti litigano: Silva è accorso proprio ora, nonostante abbia avuto venticinque anni per porgere visita a Jake; è chiaro che sia lì per perorare la causa del criminale suo figlio. Nega, Silva, che dice: Volevo vederti. Ma Jake è senza cuore, ha sempre voluto solo scopare. Quando Silva gli rimprovera di non aver mai amato nessuno, Jake, in un raptus, punta la pistola addosso a Pedro Pascal.

    La domanda si radica nello spettatore; sempre più ambiguo è Silva.

    Che poi vediamo raggiungere la casa dove alloggia il figlio Joe. Gli dà dei soldi, che scappi, prenda il suo cavallo, non c’è tempo, Jake sta arrivando. E arriva in tempo per uno stallo. Jake punta la pistola contro Joe, e viceversa, mentre Silva, che ha imbracciato il fucile, dirige la mira su Ethan Hawke. Joe viene fatto montare in sella, ma lo sceriffo Jake non ci sta, carica il colpo ma viene ferito da un proiettile proveniente dal fucile di Silva.

    È la sola scena d’azione del corto. Ma, di nuovo, non è il western che avrebbe girato Leone o la citazione di violenza estetizzata di Tarantino; è la tragedia melodrammatica, e lo stallo è quello dei sentimenti, non delle azioni. La pistola, la fondina, il cavallo, la sabbia e la stella da sceriffo sono le maschere mortuarie di un genere che sta venendo resuscitato, ma con una necessaria trasvalutazione.

    E viene confermato l’impegno (anche politico) nelle ultime scene, quando Silva si prende cura del caro Jake, medicando la ferita, bendandolo. Il figlio, Silva l’ha messo in salvo, e nessuno darà credito a una denuncia di Jake: chi crederebbe che Silva gli abbia sparato solo per poi curarlo? Il proiettile, fortunatamente, è passato da parte a parte; andrà tutto bene.

    Ci sono due momenti in cui il western sentimentale di Almodòvar raggiunge perfetta sintesi formale. Il primo, collocato circa a metà, è il flashback. Ethan Hawke e Pedro Pascal vengono mostrati accanto ai loro cavalli, con il fuoco acceso. Lo spazio è lo stesso, sembrano vicini, ma la logica narrativa ci dice che, in realtà, li separano miglia. Ma le analogie spaziali, i dettagli similari e il flashback dei due giovani nella loro prima esperienza sessuale ci parla di una connessione, ora turbata ora riattivata. Tutto nel silenzio, fatta eccezione per il crepitio del breve falò, e per i gemiti dei due giovani amanti.

    L’altro momento è il finale. Jake è ormai guarito e Silva ricorda che Jake, all’epoca, prima di lasciarlo per prendersi cura di suo padre, rompendo la relazione, domandò, ironicamente, che mai potessero fare due uomini in un ranch, cosa che Silva sognava per entrambi. E Silva, dice, ora sa rispondere: Prendersi cura l’uno dell’altro, proteggersi, farsi compagnia.

    E il cortometraggio si conclude con la nostalgia e con la consapevolezza che la vita è stata, tutto sommato, un fallimento, durante il quale le varie circostanze contingenti, le cose della vita, ciò che è accaduto loro come a tutti gli altri (i figli, lo status sociale, il tempo), ha fatto sbiadire la purezza della scultura che solo in un momento non inscritto nella catena cronologica, ma evenemenziale, quasi aiòn stoico, erano stati in grado di costruire: un pulito amore che i cavalli, nelle loro corse, hanno spazzato via come polvere.

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  • Marco Sbrana

    Nato a Milano il 26/03/2003, studia scrittura creativa presso la scuola Mohole.

    Collabora con le riviste Zona di disagio (Nicola Vacca) e Evidenzialibri (Stefano Donno).

    Cura la rubrica settimanale di cinema per la rivista Odissea di Angelo Gaccione.

    Collabora per il blog di Marco Ercolani.

    Ha scritto un romanzo e una raccolta di poesia finora inediti.

    email: marcosbrana26@gmail.com

  • “Carrello a seguire” è un blog di critica cinematografica nato nel 2025.

    Gli articoli sono suddivisi in sezioni.

    Si parla di film dell’annata corrente; delle annate scorse e di film storici.

    Si parla di serie tv e di grandi autori e autrici.

    Uno spazio è dedicato alle donne: i grandi personaggi femminili, le grandi artiste della Settima Arte.

    Spazio anche a documentari, cortometraggi e ad articoli di Storia e Filosofia, sempre inerenti al Cinema.

  • Appropiarsi della realtà

    Wes Anderson e “La trama fenicia”

    (articolo uscito per la rivista “Odissea” di Angelo Gaccione. Per leggere, cliccare sul link qui sotto:

    ODISSEA

  • Perfect Days – Wim Wenders tra identità e differenza

    L’articolo è uscito sulla rivista di Nicola Vacca “Zona di disagio”.

    Il testo è raggiungibile cliccando il link qui sotto:

    Perfect Days: Wim Wenders tra identità e differenza

  • L’invivibilità della vita

    “Dostoevskij” dei fratelli D’Innocenzo

    Apparso sul blog di Marco Ercolani

    (L’INVIVIBILITA’ DELLA VITA. Marco Sbrana – Scritture)

    L’acqua sporca di un rigagnolo. Case di lamiera che vi si affacciano. Una voce fuori campo che si commiata dall’esistenza: è la lettera d’addio del protagonista, Enzo Vitello (Filippo Timi). Ha mandato giù bastevole dose di psicofarmaci per disertare futuri incontri con la vita. In Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo si inizia che si è già finiti. È finito il mondo, è finita la luce. Il definitivo commiato è quello dell’uomo postmoderno da un mondo che non ha gli strumenti per comprendere. Non è cominciata perché è già finita. Non ci sarà ascesa, non ci sarà espiazione. Solo uno scavo nel recesso, in un abisso che ci riguarda. Enzo Vitello, il protagonista della meravigliosa serie già elogiata dai francesi Cahiers, è morto, si è suicidato.

    Anche se la mano dei registi lo trae dalla tomba. La narrazione lo resuscita. Annaspa, Enzo, il corpo smunto, macilento, che scompare nei vestiti. E si alza ed esce, laddove le spighe di grano le illumina il crepuscolo. Arranca, Enzo, fantasma di se stesso. Alle persone buone, dice la sua voce fuori campo, quella della lettera d’addio, capitano cose bellissime. E così il contrario. Lui ne è l’esempio. Cos’hai fatto, Enzo? Perché ti sei abbandonato?

    Una telefonata. Voce amica. Un omicidio, è stata uccisa anche una bambina. Enzo, stai ascoltando? Sì, sta ascoltando. Chiude la telefonata, si infila due dita in gola, vomita la sua morte.

    Tra quanto vuoi morire? chiederà Enzo all’assassino.

    Ora, risponderà questi.

    Ora non si può.

    E Timi è la putrefazione di noi tutti. Putrefazione che cammina. Uno zombie di George Romero.

    Enzo Vitello è un poliziotto; il capo, interpretato da uno splendido Vanni, gli presenta il personaggio interpretato da Gabriel Montesi. È, questi, la giovane promessa. Dunque, è un noir. Ci sono tutti gli stilemi dell’hard-boiled: il detective tormentato; il giovane rivale; il mentore; il criminale che funge da specchio. Chi è il criminale? Dostoevskij, così soprannominato per via delle lettere che lascia accanto ai corpi delle vittime. Non sono lettere autocelebrative; esprimono, bensì, il male del mondo. Enzo si ritrova in quelle parole, in quella lingua che emerge dalla carne martoriata. Un corpo, dice la prima lettera di Dostoevskij, letta da un collega di Enzo ma su cui la voce di Enzo – innamorata – si sovrappone, non è mai così vero come quando brucia. Il noir c’è; il focus è sulla sofferenza dei nostri tempi. E Dostoevskij appare come un compendio dei mali del mondo. Ci parla, ci spiega, ci traduce. Se accettiamo la sporcizia della pellicola, il sangue, l’incedere cauto della narrazione, Dostoevskij ci denuncia: siamo sporchi. Dirà Vanni che da una cantina che si vuole pulire si esce sporchi. Dostoevskij sa che abbiamo vissuto in cantina, sa quanta marcescenza abbiamo addosso, a mo’ di membrana, di patina che in toto ci avvolge. Dostoevskij conosce la nostra merda.

    Il trauma, presto detto: la figlia Ambra, che conosciamo tramite una telefonata in cui in malo modo insulta il padre Enzo. Non deve più chiamarla. Stridula la voce, è un’altra voce di pianto, di agonia, di latrato, come i cani smunti che di sovente percorrono il brullo dei paesaggi in cui Timi si muove. La geografia, una cura maniacale. La cura, quella dei D’Innocenzo, della rimozione. Il luogo in cui si svolgono le piccole grandi morti di Enzo Vitello è un nulla di spighe, un nulla di corsi d’acqua. Toponomastica assente, potrebbe essere il Texas, potrebbe essere Latina. Come il papà Goriot di Balzac, la stanza di Timi (questi spazi immensi e vuoti) di Timi parlano: ne traducono la macilenza.

    Un dettaglio, poi, durante l’esame grafologico cui vengono sottoposti uomini con precedenti penali: Timi parla con un pedofilo che si è inchiappettato due bambini. Deve essere stato piacevole, dice Timi, ma ne è valsa la pena? L’uomo (giustamente) si appella alla giustizia: ha pagato per ciò che ha fatto, e sono stati loro (la polizia) a chiedergli di venire. Sì, dice Timi, ma non bisogna mai fare quello che dice la polizia. E, in un fuori campo di eccezionale valore estetico, con un taglio di montaggio che eleva Walter Fasano a principale artista del suo campo, vediamo il sangue: Timi ha massacrato il pedofilo. Perché Timi ha massacrato un pedofilo? Lo scopriremo, perché Dostoevskij indaga senza salire, una Commedia senza Dio, una colonscopia, come quella a cui Timi si sottopone. Cioran sembra pulsare nella carne del testo filmico (la vera carne, la pellicola, come scritte a mano sono le lettere del killer): quel che esula dal sangue e dallo sperma non è che un pretesto. Di sangue e sperma si alimenta e puzza Timi, che dorme in una stanza alle cui pareti sono appese – a monito? a memento? – le lettere di Dostoevskij. Perché ogni notte, prima del sonno, ricordi questo: che la vita è impossibilità di vivere. Ed è dalla “assurda malattia di vivere”, è scritto nella lettera del secondo episodio, che Dostoevskij guarisce le sue vittime. Li guarisce, con l’atto di estrema pietà, dall’ostinazione a camminare con le ossa rotte, che si scheggiano ad ogni passo. Dice Dostoevskij alle sue vittime: Non ce la fate più, non ce la facciamo più, nessuno ce la fa più. È troppo, la vita.

    Troppo.

    E Vitello è sempre più connesso a Dostoevskij, tanto che gli scrive: “Io sarò qui a leggerti”. Ma non è il metodo di un poliziotto; ha la meglio la strategia di Montesi. Bene, dice Timi. Cosa può importargli? Cosa può importare a un cadavere animato di essere superato da un trentenne? Timi è morto al minuto uno. Timi non è nient’altro che uno spettro. Fatto di carne. La resurrezione, del resto, non è dell’anima. Ma della carne, che soffre, dispeptica, franta.

    Timi si riavvicina ad Ambra, nell’unica scena che i D’Innocenzo concedono di bellezza: Ambra che divora un bombolone. Bombolone che, su consiglio di papà, inzuppa nel cappuccino. Ma gli occhi di Timi sono quelli che hanno le fotografie dell’Ottocento: occhi che distanze siderali separano dal calore. Condannati al freddo, proseguiamo, e tutto muore, tutto muore di nuovo, perché il rancore di Ambra è troppo. Ricorda l’assenza del padre, tutto quel che di lui conosce, il vuoto. E non lo tollera. Presso il lido, le loro strade si separano. Il caos infila, scrive Dostoevskij, la città dei figli sbagliati. Il contenitore.

    Dopo aver scoperto che Dostoevskij, chiunque sia, ha vissuto in orfanotrofio, Timi lascia la squadra, perché, contrariamente alle sue disposizioni, le lettere sono trapelate, ora le possiedono i giornali. Puzziamo di male, dice Vanni, l’amico, il mentore.

    Perché hai abbandonato tua figlia?

    Cos’è Dostoevskij? Prima di essere un uomo, o una donna, è il mandato che riporta in terra, dalla catabasi senza ritorno, per compiere l’unica purificazione possibile, quella del dissiparsi. Timi è una persona cattiva. Il mio corpo, dice ad Ambra, desiderava il tuo.

    Questa la colpa. La punizione sarà sempre differita, e quindi si vivrà nell’ansia (lo insegna bene Kafka, riferimento del testo Dostoevskij, debitore alla grande letteratura del disagio, da Morselli a Céline). Enzo Vitello è malato. È un pedofilo. E ha massacrato di botte, scene fa, la parte di lui che ha ceduto alla malattia. Perché Vitello non l’ha mai toccata, Ambra. Nuovo senso, a fortiori, assumono i filmini di Ambra da piccola (chi è più pericoloso di un voyeur?) e il video porno che Ambra ha inviato alla polizia per scandalizzare il padre. Ma Ambra si infrange, ora. E papà deve infilarle due dita in gola perché – in una scena che sa di regressione alla prima infanzia – la figlia gli possa vomitare addosso i farmaci con cui voleva porre fine alla vita indecente.

    Quando Vitello trova Dostoevskij – che è una giovane chiamata Patrizia Piscopo – la morte si profila come avvenire che conforta. L’atto del suicidio, interrotto dal mandato della narrazione (ed è anche un discorso metacinematografico), Vitello lo esegue tramite Patrizia, obbligandola a scrivere una lettera in cui simula il suo omicidio, dopo averle cavato un occhio. Poi la uccide. Sono morti entrambi, ora. Ma non ci possono essere testimoni. L’erranza del cadavere-Vitello deve essere protetta. E Vitello uccide un uomo che passa in macchina vicino al covo del killer ucciso.

    Era un bravo poliziotto, viene detto, alla fine, di Vitello.

    Vanni, amico di un’amicizia che sopravvive alla morte, cerca con Ambra il corpo di Enzo. Sulla sponda del fiume camminano. Dostoevskij è la vecchia storia del buio e della luce, del male e della colpa, della redenzione e della pace chimeriche. Ambra, nel corso d’acqua che brilla al primo vero sole mostrato dai D’Innocenzo, vede un pesce.

    Qualcosa di vivo c’è. E forse basta. Forse, in questo inferno di fango che puzza dei morti che ci portiamo in spalla, basta esserci. Non che serva, ma forse è bello. Come gli inutili pesci che corrono e, nella loro inanità, sono stupendi.

    L’ho visto anch’io, dice Vanni.

    Anche noi, in questa colonscopia, abbiamo intravisto qualcosa. Del lirismo, un canto, una poesia. Grazie al colonscopio, il cuore di un uomo.