Autore: Marco Sbrana

  • Legge, hybris e animalità – “As bestas” di R. Sorogoyen

    (articolo apparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione al seguente link: ODISSEA)

    Nelle montagne spagnole in cui si ambienterà la vicenda, era tradizione locale strappare la criniera ai cavalli con l’ausilio delle sole proprie forze, a mani nude. E, subito dopo questa notizia storica, ha inizio l’opera di Sorogoyen, presentata nel 2022 a Cannes. Una coppia francese si è stabilita in un quasi abbandonato villaggio spagnolo. Si è esposta, andando contro la tendenza dei locali, che volevano vendere le terre a un’azienda eolica norvegese, sperando, con il ricavato, in una vita migliore, resa impossibile dai progetti dei due, che diventano bersaglio di una persecuzione da parte di due fratelli del luogo. I quali fratelli, inizialmente, rovinano il raccolto della coppia tramite due batterie poste nel pozzo che alimenta il terreno. E questo evento, quando viene inquadrato, ha l’aria di essere non plus ultra. Non lo è: Antoine, il protagonista, verrà soffocato, tenuto fermo da entrambi i fratelli, com’è lui un uomo estremamente massiccio, alla stessa stregua dei cavalli che vediamo, nella sequenza iniziale al ralenti, venire trattenuti.
    Sin dalla prima sequenza – e anche dal titolo – Sorogoyen evidenzia uno dei nuclei tematici portanti del film: il concetto di bestialità, che nel corso della narrazione si declinerà in modi affatto differenti.


    As bestas è un film di domande insolute. Netto, preciso, una sorta thriller rurale che vede, nell’epilogo tragico della persecuzione, non lo scioglimento dei nodi ma la creazione di inedite difficoltà per la moglie di Antoine, Olga, rimasta sola. A dire di lei, lui volevano morto mentre lei non rischiava. Ma la sua infinita solitudine non gode di placidità; vive anzi l’oppressione del paese tutto, per essere “moglie di” quello che ha impedito la vendita dei terreni. È più volte esplicitato che, con il ricavato, nessuno avrebbe potuto cambiare vita. E più volte si cita la Storia. Viene attribuita a Napoleone una frase in prossimità del tentativo di invasione della Spagna: “Gli spagnoli sono degli idioti del cazzo”.
    È insomma un film di territori. Non solo quelli filmati – che circondano di ameno (scelta che ricorda Midsommar di Ari Aster) il crescendo di barbarie – ma anche quelli respirati, quelli della storia privata dei singoli personaggi. Ma è anche, As bestas, un film di paradossi (il più grande dei quali si rivelerà essere quello della Legge). Sì, perché se, da una parte, gli indigeni sono ovviamente legati a quel villaggio, nulla fanno per mantenerlo vivo; gli unici che agiscono – rifiutando la proposta dell’azienda norvegese – sono Antoine e Olga, che mirano alla ristrutturazione delle case derelitte perché possano un giorno ospitare nuove persone (attività parallela a quella dell’orto).


    Si scontrano due griglie valoriali. Quella che, in teoria, provenendo la coppia francese dalla metropoli, si presupporrebbe (con pregiudizio, sì) essere materialista, è in realtà quella a cui il denaro importa poco; gli indigeni, che dovrebbero essere legati alla terra, non vedono l’ora di venderla. Sorogoyen è astuto nel porci Antoine e Olga immediatamente come vittime per cui parteggiare, salvo poi lasciar trasparire le ragioni dei “buzzurri di montagna”. Che, dice il fratello maggiore, uno dei due assassini, hanno condotto una vita a spezzarsi la schiena e, giunta l’occasione per liberarsi dello sforzo senza ricavato alcuno se non una sbronza quotidiana a buon mercato, si vedono strappato il sogno da un altro sogno. Il sogno di chi ha meno diritto a sognare, cioè la coppia francese, stabilitasi lì da due anni soltanto, e che pure – nella trattativa con l’azienda norvegese – è diventata ago della bilancia.
    Ed è un nuovo paradosso: è vero che, indipendentemente dal tempo in cui mi trovo in un luogo, i miei diritti sono identici a quelli di chi nel luogo vi è nato, ma questo è il modo giusto di vederla. Il film propone – fin dall’inizio – un’altra visione. Si badi, a scanso di equivoci, Sorogoyen non giustifica l’omicidio di Antoine e confeziona un film che è anche (solo superficialmente, ad avviso di chi scrive, contro la xenofobia), ma propone la visione animale del mondo. Se un animale ha fatto tana in uno spiazzo, e un altro animale, in un tempo successivo, a sua volta vi fa tana, a decidere per lo spiazzo – ripeto, nella logica animale che fortunatamente non ha Costituzione scritta – non sarà mai l’animale venuto dopo. Sorogoyen è onesto, nel suo prendere posizione a favore di Antoine e Olga, nel mostrarci le fila del ragionamento dei violenti e, diciamolo di nuovo, ingiustificabili comprimari.


    E lo diciamo di nuovo perché As bestas – film di genere a tutti gli effetti che riesce a ricoprirsi di strati semantici su strati semantici – parla della battaglia per agire e vivere nella legalità contro il sopruso, ma trasla quella che avrebbe potuto essere una pellicola di stampo legale in un contesto che va alla radice dei conflitti umani, alla radice brutale delle dinamiche di potere, alla mera sopraffazione, alla bestialità. Viene affrontato il concetto di terra e di appartenenza con un tono che è quasi da parabola biblica, dove la prima immagine dei cavalli si sovrappone allo strangolamento (lungo perché difficile, difficile perché ammazzare è difficile – e questa è etica dello sguardo, come insegna Nanni Moretti nell’ultimo Il sol dell’avvenire) di Antoine. Si trasforma poi, As bestas, in un film sul concetto di giustizia e sulle sue aporie. Perché, morto Antoine, nessuno che se ne sia importato. E i colpevoli – a tutti noti – sono rimasti impuniti.

    La figlia della coppia raggiunge Olga e le due si scontrano, perché questa ha consacrato la vita alla ricerca del cadavere del marito, in un’ossessività prossima alla psicosi, versando in un isolamento totale, nell’oppressione, nella minaccia, come dicevamo prima. La Legge è stata calpestata dal momento che le forze dell’ordine stesse non si muovono per agevolare le ricerche di Olga, ma la lasciano colpevolmente fare in solitudine. Ci si lascia alle spalle il concetto di hybris. Perché nell’atto della coppia una hybris la potevano vedere solo i due fratelli assassini, il cui ragionamento è tratteggiato come logica del sopruso e legge del più forte. Adesso il dramma è quello dell’individuo lasciato solo dalle istituzioni, che non riconoscono l’ingiustizia e anzi delegittimano la vittima. Perché nessuno ha fatto nulla? Perché conveniva, dice il regista.
    Ma quando Olga trova la videocamera (con la quale Antoine ha filmato invano tutti i soprusi, compreso quello definitivo, legando la macchina a un albero), la situazione cambia, non perché la memory card venga ritrovata ma perché nei pressi della camera deve trovarsi il corpo: così è, e il film si chiude con un primissimo piano di Olga scortata dalla polizia.


    Ma non c’è pacificazione, per lei. Potrà appianarsi l’ossessione, di fatto conclusa. Ma dovrà decidere se restare in un paese già ostile e che diventerà soffocante una volta che Olga passerà per quella che “ha fatto arrestare” i due fratelli, o se rinunciare al sogno senile di vivere di un orto e tornare in Francia, in una parimenti dolorosa solitudine.
    Sollevando temi attuali quale la colpevolizzazione della vittima, As bestas assolve la sua funzione di film thriller che, facendo del crescendo di atrocità la sua forza (e in questo ricordando la discesa verso il sempre più marcio dei film, mi viene in mente, di Michael Haneke), getta luce sulla radice marcia dei rapporti umani, in un non nuovo ma attuale homo homini lupus.

  • Nel sogno dentro il sogno, una storia di crescita – “Alpha” di J. Ducournau

    (articolo apparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione al seguente link: ODISSEA)

    L’ultima volta che Julia Ducournau ha presentato un film Cannes – Titane – le è stata assegnata la Palma d’Oro.

    Torna quest’anno con un film che, a suo dire, serbava da prima del trionfo.

    Sabbia. Vento. Vento rosso. E sembra marmo la superficie crepata su cui scorrono i titoli di testa ma, quando la macchina da presa affonda – e affonda e affonda – l’immagine prima è il buco su di un braccio. E il braccio – il braccio di un eroinomane – è di buchi percorso. La mano di una bambina disegna segmenti che uniscono i buchi: “Così è più bello,” dice la bambina. Si chiama Alpha, è la protagonista, adesso ha cinque anni. E quando lo zio – Amin, si chiama – apre la mano che rivela una coccinella, è di una bimba il meravigliarsi.

    Lo stacco è netto. Siamo a una festa. Adolescenti. Droga e alcol. Ma quel che è peggio è un ago sporco che segna una A sul braccio di Alpha – ora tredicenne. Questo l’inizio di un film che non coccolerà mai lo spettatore. Lo assedierà di domande. Ducournau crea un muro; sta a noi abbatterlo. Tale il rapporto tra autrice e ricettore. Reciprocità: sicché fin dal desiderio della regista di non spiegare mai (così come faceva Bunuel) si crea un cinema necessario, che è il cinema politico – politico perché relazionale, politico perché interroga e non fornisce risposta. Ma dà, Alpha dà tantissimo a chi accetta il patto.

    Per capire quale sia il patto, bisogna definire un minimo di trama.

    Gira un virus – allegoria dell’AIDS – che si trasmette come l’AIDS e che come l’AIDS crea terrore. L’ago del tatuaggio era sporco. Il film racconta la storia di emarginata di Alpha – a scuola ostracizzata – e dell’altrettanto emarginato Amin, zio di Alpha.

    Non si creda di poter interpretare il film dopo una sola visione.

    Ma, alla seconda, si ricavano indizi.

    Alpha, terrorizzata, ascolta la madre parlare con qualcuno che non vediamo e dirgli che non ce la fa più: prima con lui, ora con la figlia. La madre – medico – è stanca, dice, di lottare.

    Così viene convocato Amin, eroinomane invalidato dai tremori di un indotta astinenza per ripulirsi il sangue.

    Alpha è sovrabbondante di linee narrative. Questo l’unico difetto. Titane era una linea retta; Alpha è un film rizomatico. Barocco, forse. Sembra di sentire Ducournau e il suo desiderio (il film ha molto di autobiografico) di essere totalizzante, di voler creare una specie di romanzo-mondo à la Pynchon ma che si concentri sul conetto di trauma.

    Amin – capiremo – non ha mai raggiunto Alpha. È morto: il virus – che trasforma la pelle dei malati in marmo – l’ha ucciso otto anni prima che Alpha tornasse a casa col tatuaggio. La morte di Amin – smagrito, emaciato, tremante, ironico e sordido – viene mostrata e risemantizza il testo prima delle ultime sequenze. Se Amin è morto, chi abbiamo visto nella linea narrativa presente, quella del tatuaggio?

    Non è domanda che sia pertinente.

    Ché il trauma ha una logica indipendente, ché il trauma vive nella circolarità, nella reiterazione. Non si deve pretendere, dice Ducournau, che il trauma combaci con le regole della mente sana; i film che sovrappongono – sciatti – il trauma alle regole del mondo sono disonesti. Pur di non disorientare, molti registi inscrivono il trauma nella sfera della comprensibilità. Non Ducournau, che attraverso la figura di Amin rende carne, incisione, ferita, ballo il trauma, il quale trauma non perviene all’intelletto bensì arriva dove dovrebbe arrivare in ogni suo racconto: allo stomaco.

    Ma il fatto che, nella scena con Beethoven (il pranzo di famiglia), nessuno a parte la madre paia notare Amin può, alla seconda visione, aggiungere qualcosa. Ma questo qualcosa non è necessario.

    Tutto il necessario colpisce alla prima visione. È accessoria l’intellettualizzazione di quanto vediamo nel film.

    Ducournau – come in Titane – tratta la musica come personaggio agente, parlante. The Mercy Seat di Nick Cave (splendida versione al piano) accompagna il ballo spasmodico (così Breton: “La bellezza sarà convulsa o non sarà”) di Amin e Alpha, tra i malati di marmo, tra le luci intermittenti di una discoteca di periferia. Scena gemella del ballo su She’s Not There in Titane. Lunga canzone, lunga sequenza. La macchina a mano che non si stacca dai volti, ma li segue e ce li sbatte davanti, perché siamo davanti alla delicatezza del macellaio, non a quella dell’architetto, siamo la carne, siamo il marcio che ci scorre nelle vene, siamo fluido corporeo. E scorriamo. Vediamo lo scorrere delle cose come in Fellini, l’impermanenza, vediamo Eraclito. Ma non è un fiume cristallino; qui c’è sangue (come la superba scena in piscina), qui c’è mucillagine, i pesci affogano.

    Così, tra un tentativo (Alpha tredicenne) di capire se sia o meno malata, tra una scena e l’altra (Alpha a cinque anni) di Amin che muore di eroina e del virus il cui rimedio ha trovato proprio nell’overdose, il fluire della vita e di un film che oscilla, appunto, tra l’ineluttabile proseguire, incessante andare del tempo, e la fissità del trauma.

    Il professore di Alpha recita una poesia: un sogno dentro un sogno, dice l’uomo in riva al mare, in pena per una “spietata onda” che ha mietuto (dice il professore) “almeno una vittima”.

    La domanda è su chi sia la protagonista del film. Detta domanda si intreccia al discorso sul fluire. Non c’è fissità nemmeno nel punto di vista. Non c’è arresto nemmeno nella prospettiva. La vita scorre, ci scambiamo fluidi, le carni si fondono, e la vita non designa punti fermi. Sicché sì, seguiamo Alpha, ma risulta chiaro che il trauma è quello della madre.

    Che, nel finale, porta Amin a casa. Alpha esce dall’auto, osserva i due. E Amin si dissolve in polvere mentre il vento rosso (una leggenda berbera: vento rosso scorre nelle vene di un malato che deve essere purificato con l’acqua) si abbatte contro il viso di Alpha in lacrime.

    Il rapporto tra Alpha tredicenne e Amin è un sogno: la scena del soffitto che schiaccia Alpha soffocante; la corsa lungo il campo da calcio (montaggio parallelo con quella con sotto Nick Cave). Ma non è il sogno di Alpha. Sogno dentro il sogno – così la poesia – dopo una pitiless wave che ha ucciso almeno una persona (Amin).

    But who is the dreamer?

    Se per rispondere a questa domanda in relazione a Twin Peaks ci vorranno decenni, possiamo, per Alpha (film più classico di Titane, meno Cronenberg e più dramma familiare, malgrado la struttura più complessa, come detto rizomatica) dire che la sognatrice è la madre.

    Come si supera un trauma? Si può superare un trauma?

    La cesura, forse, può risultare salvifica.

    La madre – medico, ricordiamolo – non ha saputo salvare il fratello: né dall’eroina né dal virus. Colpa, infinita colpa, come se lo avesse ucciso. Al che, quando Alpha rischia di replicare l’orrendo già vissuto, la madre convoca il fratello e si mette a sognare.

    Ma non basta.

    Due scene.

    Al pranzo di famiglia, Alpha chiama spesso la madre perché la salvi dalla confusione (e dal martellante sottofondo beethoveniano). Così la madre: “Anch’io ho una vita, Alpha”. Frase forte, inadatta al contesto. Esagerata, no?

    Indicativa senz’altro.

    Seconda scena, appena prima del finale. Madre e figlia condividono il letto singolo di Alpha. E Alpha: “Mamma, hai fatto tutto bene”.

    Titane era joyciano perché sul padre; Alpha è sulla madre. Che ha una vita propria, di cui non conosceremo mai tutti i dettagli. E che deve essere perdonata.

    È la storia di molte famiglie distrutte, per esempio, dalle malattie mentali. Purtroppo parlando per esperienza, ipotizziamo un figlio con malattie psichiatriche e una madre che lo vuole salvare. Immaginiamo la simbiosi. Immaginiamo il privato della madre: quella volta che uno sconosciuto l’ha molestata e lei non è più riuscita a entrare in quel parco; immaginiamo la depressione in prossimità degli esami, la costrizione a letto e il Prozac; immaginiamo l’invidia per una sorella più brava e più magra. La cesura – che sarà la salvezza sia per la difficile adolescente Alpha sia per la madre – si ottiene quando il figlio lascia andare. Lasciar andare è riconoscere l’impossibile.

    Abbiamo albergato nel ventre di nostra madre. Ma nostra madre è un Altro. Riconoscerla come Altro da sé è riconoscere l’impossibile, riconoscere i suoi traumi, e assolverla.

    Come fa Alpha, in questa splendida storia di formazione.

    Precoce crescita, ma necessaria.

    Dapprima è la vita, la prima, il cordone; la vita vera è prescindere dalla mamma.

  • Il fantasma che ci abita – Nota critica su “Personal Shopper” di Olivier Assayas

    Premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 2016, Personal Shopper di Olivier Assayas decostruisce la ghost-story per restituire un film sull’elaborazione del lutto, che viene incapsulata nel genere (potremmo definirlo fantastico) salvo poi, nel finale, risemantizzare il testo tutto.

    La protagonista è Kristen Stewart. La scelta della protagonista non è casuale. Personal Shopper gioca – a livello di fotografia – sulla desaturazione del colore; l’incedere drammaturgico è, invece, affidato a un ritmo lento e contemplativo. Il corpo della Stewart si sovrappone in toto all’estetica del film. Viene, la Stewart, valorizzata nei suoi tratti più androgini – perlopiù del vestiario – e nella sua (divenuta purtroppo proverbiale e fonte di divertimento) insofferenza. Di recente l’abbiamo vista diretta da Larraìn in Spencer. Stewart è sicuramente a proprio agio nel rappresentare il lutto di sé cechoviano, per via di occhi quasi sempre persi in divagazioni tristanzuole.

    Personal Shopper è un film di fantasmi. La protagonista ha perso il fratello gemello Lewis e si reca nella casa da lui abitata per intercettarne la presenza spiritica. Perché Stewart è una medium che riesce a stabilire connessioni con i fantasmi. L’ingresso in casa, che apre la pellicola, è girato con un long take che nulla ha da spartire con il massimalismo di Birdman (A. G. Inarritu); è un long take contemplativo, lento, che ci introduce nella meccanica, nei gangli del film.

    Fantasmi e medium sono imposti, accettati, non tematizzati, non problematizzati. Questo il patto che Assayas stabilisce con i ricettori. Non ci sono scene del tipo: “Ma i fantasmi non esistono!”. Sino al finale si dà per scontata l’esistenza di un mondo ultraterreno. E lo sforzo iniziale dello spettatore per accettare che in medias res la presenza dei fantasmi è ripagato, e necessario per assistere a quanto segue e al finale con lo stravolgimento.

    Stewart sente una presenza già la prima notte; e si è formata una croce sul muro che prima non c’era. Il fratello Lewis, probabilmente. Ma già intuiamo: tutto è segno – non per lo psicotico, come vuole Lacan – ma per chi ne ha bisogno.

    La protagonista è una personal shopper: incaricata di vestire un personaggio pubblico che “non ha tempo per le inanità”. Aderente all’estetica globale anche la scelta dell’occupazione, poiché, Stewart essendo incagliata nel lutto, diventa qualcun altro nel provare i vestiti della sua datrice di lavoro Kyra. E il contrasto tra l’attitudine di Stewart e quello di Kyra garantisce empatia con un personaggio, quello della protagonista, devastato dal lutto, dai cui occhi è stato prelevato il colore. Stewart, che veste maglioni e jeans, (ri)scopre la sessualità durante le ore di lavoro, dopo che il lutto – plausibilmente patologico – ha atrofizzato il corpo e del corpo le voglie.

    La protagonista condivide con il fratello defunto la stessa malformazione che – per un caso rarissimo, sottolinea il medico che visita Stewart – ha provocato l’arresto cardiaco.

    A posteriori, quindi dopo lo sconvolgimento finale, ci si accorge – magari a una seconda visione – di come la paura di fare la stessa tragica fine del gemello giochi un ruolo nell’ossessiva ricerca di segnali dal mondo al di là del nostro, quello degli spiriti che accompagnano, o tormentano, i vivi.

    Stewart conosce l’amante di Kyra. Un uomo che oscuro è dire poco. A tal punto che, quando Kyra verrà trovata morta dalla protagonista, sarebbe più sensato pensare che dietro l’omicidio ci sia lui, ma in quel momento Stewart verrà travolta da uno sbattere di porta che la indurrà a pensare al suo Lewis.

    In seguito, Stewart riceve messaggi insistenti che provengono da un numero sconosciuto.

    Nel finale scopriremo che la ghost story non è stata altro che un espediente per rendere carne l’impossibile elaborazione del lutto. Sicché, se in un primo momento come ricettori avremmo risposto: Lewis alla domanda: Chi scrive quei messaggi?, al termine del film la domanda si riaccenderà e troverà nuove risposte. Che pure non sono pertinenti, che pure pertengono a un altro film, in qualche modo, il film ipotetico – e per fortuna inesistente – che dovrebbe spiegare i misteri disseminati in Personal Shopper alla luce della rivelazione finale.

    La quale rivelazione restituisce il senso del film: un film sul lutto. Che frontalmente è trattato solo tramite la figura della ex fidanzata di Lewis, che ha un nuovo compagno perché “Non vuole vivere nel lutto”.

    Atmosfere crepuscolari, assenza totale di colonna sonora, movimenti di macchina contemplativi, colori in desaturazione, volti smunti, dal dolore resi magri. Il film è un viaggio che costruisce un edificio che crollerà nel finale.

    Kyra muore e la polizia interroga la protagonista, che si era recata a casa della datrice di lavoro per consegnarle dei gioielli acquistati durante una delle tante commissioni di cui Stewart è incaricata.

    Un nuovo messaggio dall’inquietante numero sconosciuto: che la nostra si presenti in hotel. Così fa Kristen Stewart. E, in hotel, appena fuori, l’amante (l’uomo oscuro di cui sopra) viene arrestato. Il codice cinematografico è spesso implicito, com’è il linguaggio del cinema basato, certe volte, sulla sola giustapposizione di due o tre inquadrature. Ed è implicito che dietro i messaggi ci sia l’amante ora accusato e che poi confesserà l’omicidio.

    Eppure, noi ricettori crediamo ai fantasmi fino all’ultimo. Anche perché, nella casa abitata da Lewis quand’era vivo, di fantasma ne abbiamo visto – ma, si badi, attraverso gli occhi uccisi dal lutto della protagonista.

    C’è un duplice finale.

    Kristen Stewart parla con il nuovo fidanzato dell’amica che nel lutto non vuole più vivere. Era egli amico di Lewis e, conoscendolo, non pensa ci sia nulla di impossibile, nemmeno i fantasmi. Si alza e Stewart rimane sola mentre, dietro di lei, una sagoma maschile compare giusto il tempo di reggere una tazza da tè, per poi volatilizzarsi e lasciare che la tazza leviti e si abbatta a terra.

    Allora i fantasmi sono veri?

    Forse, non è il caso di essere netti.

    Di certo, così Assayas, i nostri fantasmi ci albergano nello sterno; quanto alle loro manifestazioni, la risposta non possiamo averla. Ma l’ultima scena è un suggerimento in questo senso.

    La protagonista ha raggiunto il fidanzato Gary in un paese arabo. Una tazza levita. “Lewis, sei qui?”. Un colpo: vuol dire sì. “Mi aspettavi?” Un colpo. “Sei in pace?” Un colpo. “Non sei in pace?” Un colpo. “Mi prendi in giro?” Un colpo. “Sei un’entità maligna?” Due colpi: vuol dire no.

    “Lewis, sei tu?

    Lewis, sei tu?

    O sono solo io?”

    Un colpo. Luce abbacinante, lattiginosa. Titoli di coda.

    Non è dato sapere – e se Assayas l’avesse svelato sarebbe scaduto nello spiegazionismo più becero – se i fantasmi e gli eventi apparentemente inspiegabili che hanno percorso Personal Shopper siano “stati Lewis” o “siano stati solo” la protagonista. L’unica cosa che Assayas si permette di dire è che sì, siamo solo noi. Non c’è desiderio di psicanalizzare, di diagnosticare malattie psichiatriche – comunque non improbabili – della protagonista; solo, così Assayas, il lutto consiste nell’accettare che ci vivano dentro le voci degli Altri che ci hanno forgiato con le loro parole e di cui siamo traccia anche postuma, perché – questo è Barthes – la comunicazione è immortale, sopravvive alla morte di uno dei due membri del discorso.

    Non è importante stabilire – sebbene Assayas propenda, pare, per questa ipotesi, vista la carica che dà all’ultimo piano americano di Stewart – se la protagonista si sia immaginata tutto.

    È importante – per noi e per lei – accettare che, indipendentemente dal fatto che si palesino in forme ectoplasmatiche o meno, siamo zeppi di morte, zeppi dei nostri morti.

  • “Parthenope” di Paolo Sorrentino – Sul concetto di trama

    (articolo comparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione – pagina raggiungibile al link: ODISSEA)

    Davvero un testo filmico non è in grado di sostenersi con la pura forma, col puro segno? Pensiamo a T. Malick o a B. Tarr, ma anche a Lav Diaz. Lunghi film che aboliscono l’intreccio in virtù della pura estetica. La forma, nei film di Diaz, è contenuto, così come nell’opera magna di Tarr, Satantango. Sono, questi, film “difficili”. A dire: inaccessibili se in un film si cerca l’intreccio, la trama. Ma perfettamente godibili se si ammette che il testo possa basarsi unicamente sulla bellezza delle immagini. L’ibrido è il problema.
    E veniamo a Parthenope di Paolo Sorrentino (2024, presentato a Cannes). Sorrentino pecca perché non radicalizza – come invece fanno i sopracitati. Parthenope sarebbe stato altro (leggasi “meglio”) se Sorrentino avesse deciso di prescindere da qualsivoglia forma di storytelling. La mancata radicalizzazione produce, ripeto, un ibrido malfunzionante, che ora vuole essere pura forma, ora vuole narrare. Ed è qui l’incertezza di uno dei più grandi registi nostrani. La tendenza a produrre film senza trama (e vivaddio) che, però, volendo anche raccontare (come se il cinema avesse ancora bisogno di storie), falliscono. Mi spiegherò meglio più avanti.


    Nata dal/nel mare, Parthenope è bella e ha la risposta pronta: qui si esaurisce la caratterizzazione. Ed è un problema. D’Antonio, (non più Luca Bigazzi) illumina scene e corpi e luoghi estremamente suggestivi, che in certi momenti sembrano far virare il film verso la videoarte. Magari fosse videoarte. E invece, dopo uno splendido ballo a tre con Cocciante di fondo, si torna allo storytelling. Di per sé non sarebbe brutto. Il cinema di Fellini si basa su questo: la storia è portata avanti da infinite divagazioni (un cinema rizomatico), le scene godono di autonomia, l’elemento onirico fa da padrone e l’intreccio è abolito. Cosa manca a Sorrentino? Forse un Flaiano o un Guerra a co-sceneggiare.
    Parthenope è solo, soltanto ed esclusivamente un bel corpo che attraversa bei paesaggi. La sua essenza fantasmatica (mitologica, come il titolo dichiara) funzionerebbe se fosse – la ragazza interpretata da Celeste Dalla Porta – personaggio vettore; come protagonista non funziona. In quantoprotagonista, l’essenza fantasmatica è solo vuotezza e mancata caratterizzazione in fase di script. I film a episodi di Fellini (il paragone è naturale, e non è il becero discorso sul presunto “furto” o “plagio”; è ascendenza – cosa legittima ove non doverosa), ecco, i film a episodi di Fellini funzionavano perché il protagonista, anche quando circondato non da personaggi ma da archetipi, era adeguatamente caratterizzato, abbastanza caratterizzato perché il pubblico ci si affezionasse. E Sorrentino è spesso (non sempre) riuscito in questo. Accetto che Jep Gambardella (La grande bellezza) sputi sentenze e si muova senza meta tra paesaggi autonomi. Perché? Perché è un personaggio davvero scritto. Non posso accettare le sentenze di Parthenope, né il suo vagabondare. Perché Parthenope non esiste, non è scritta; di lei – ripeto – si sa solo la bellezza. E non basta. I film a episodi funzionano solo se il nucleo è solido. Guido Anselmi di 8 ½ , Gelsomina de La Strada o Marcello de La dolce vita. Personaggi fortissimi (diciamo indimenticabili) che non sono mossi dai modelli campbelliani o vogleriani di viaggi dell’eroe e altre capsule storytellari, ma che sono così forti – così sinceri – da farsi seguire nel loro andare senza destinazione.


    Parthenope funziona quanto a ritmo, a mio avviso. Dovremmo isolarlo dal coacervo di futilità per coglierlo; facciamolo. Parthenope ha l’andamento di una sinfonia. In questo è un grande testo: nella gestione del ritmo (l’ambizione schopenhaueriana, propria a tutte le arti, di eguagliare la musica). Il ritmo languente restituisce il nucleo tematico della transitorietà, dell’impermanenza. Funziona il Cheever di Gary Oldman: goffo, comico, disperato, tragico, che non si regge in piedi. Sempre funziona Sorrentino quando si concede alla commedia. Basti ricordare quel gioco melò e grottesco tra il protagonista de L’amico di famiglia e la madre che defeca in una bacinella ai piedi del letto. Funziona meno (e dispiace, vista la prossimità di film attuali come Povere Creature! di Lanthimos) l’assenza di figure femminili tridimensionali, drammaticizzate: Isabella Ferrari e Luisa Ranieri servono solo alla fauna grottesca di Sorrentino. E Parthenope è un bellissimo involucro che non contiene altro che sentenze. Non si chiede (tutt’altro) classicità, ma un artista che desideri fare più di una trama deve saper creare nuovi baricentri, solidi tanto quanto il Vogler. Manca, in senso di Duchamp, un’idea di progetto, un nucleo che, in autori “non convenzionali”, sostituisce – e fa qualcosa di migliore – della linearità che, se percorsa, e qui Sorrentino ha ragione, è noiosa e mendace.
    Le Filippine per Diaz, il mondo rurale per Tarr, la guerra per Malick.
    In Parthenope, una ragazza ridotta alla sua straordinaria bellezza e ad aforismi che, innaturali, fanno emergere non la voce del personaggio ma quella dell’autore, il cui vero difetto non è stato imbarocchirsi, ma non radicalizzarsi a sufficienza.

  • Generazione di equilibristi – Nota critica su “The Sweet East” di Sean Price Williams

    (articolo comparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione – pagina raggiungibile a questo link: ODISSEA)

    Bisogna diramarsi, bisogna scappare.
    L’utilizzo della macchina a mano ha duplice funzione: restituire, in un primo momento del film, certo tipo di naturalismo; poi, quando il viaggio di Lillian si fa sempre più picaresco, assolve la funzione di disorientare lo spettatore tanto quanto è disorientata la protagonista.
    Film del 2023, esordio alla regia di Sean Price Williams, The Sweet East inizia con la pateticità del maschio. Lillian è a letto col suo fidanzato, hanno appena fatto l’amore; lui – giustamente ridicolizzato da un regista che, vedremo, non tentenna nel prendere posizione e quindi nel politicizzarsi – gioca col preservativo pieno di seme: forse Lillian lo vuole tenere, il condom, come ricordo.
    E poi la gita di classe a Washington DC. E, da quella, Lillian scappa. Si allontana dal becero, dal mediocre. Il film seguirà le tappe del suo viaggio: dapprima accolta da un gruppo di punkabbestia, userà un cinquantenne di estrema destra (conosciuto a un evento à la MAGA) come sugar daddy, per poi scappare – di nuovo – e diventare protagonista di un film; sul set viene però raggiunta dai MAGA, e trova rifugio presso un capanno, proprietà di un gruppo di fondamentalisti islamici. E Lillian scappa anche da loro, ma fa freddo, e sviene, e i sacerdoti del monastero presso cui ha ceduto hanno chiamato la polizia. Lillian, infine, torna a casa. Riaccolta dalla famiglia, il tg dà la notizia di un attentato: migliaia di morti in uno stadio. Lillian esce di casa, sguardo in camera, e scompare. Quanto rimane è solo la consunta bandiera americana.
    La solitudine è viaggio dentro di sé. Evadere è setacciarsi – sembra dire il film – e la vera evasione è cercare in sé e trovare un altro.
    Williams non è politicamente ambiguo: riconosce spessori e superficialità della GEN Z.
    The Sweet East ha una strana potenza, che trae in toto dal surrealismo. Gli eventi picareschi, circensi, grotteschi, improbabili, si susseguono senza essere preparati; semplicemente accadono. Questo è il surrealismo: assenza di setup, assenza di spiegazione. Lo storytelling si basa sul setup, la semina di dettagli che vengono ripresi (payoff) nel corso del testo. Il surrealismo abolisce i nessi causali. Perché surrealismo è vitalismo: è la vita che ci prende con frenesia, che ci rapisce – nell’incubo tanto quanto nel sogno migliore. L’intero film di Williams è un’immersione non protetta nell’altrove che una giovane cerca sempre, inevitabilmente, in contrasto con l’aurea mediocritas della sua deiezione. L’abolizione dei nessi causali fa tornare alla mente Alice nel paese delle meraviglie, e l’analisi di Deleuze in Logica del senso: non più kronos – il tempo lineare – ma l’evento puro, che balza fuori dalla catena temporale e causale, il tempo degli stoici, l’aiòn.


    Il disorientamento – di norma – funziona se c’è un ancoraggio, non se si inizia si procede e si finisce con il disorientamento. The Sweet East sceglie però consapevolmente di rappresentare il caos senza appigli narrativi. Pare che il regista non sia interessato alla vicenda ma alla restituzione di un clima.
    Si parla di noi, della GEN Z, del capitalismo liberale. Mercificati e reificati, viziati dalla cultura capitalista, la nostra unica speranza è la rinuncia alle radici. Il solo modo per scappare dalla macchina (ancora Deleuze) è non porsi più come soggetti (di qui l’assenza di appigli). E la generazione Z è nel caos di un equilibrismo annaspante, giovani che balzano da una parte all’altra, da un limite all’altro della vita, tra l’oblio e l’affermazione, tra un cinquantenne che usa le ragazze per ricreare Lolita a un mondo che vuole solo efficienza e corsa.
    Cambio, mi sposto, muto forma, vestiti, attitudine, ma davvero il mondo cambia se io a cambiare continuo? Il desiderio di fuga si accompagna – sembra dire il film – alla impossibilità del cambiamento. E viene, nel finale di The Sweet East, la tristezza di ritrovare la solita, vecchia mediocrità, laddove il mondo aveva fatto promesse. È l’infelicità della generazione z.
    Uno spasmodico movimento che è un divincolarsi; inutile, perché  lacci ci legano al letto della nostra cameretta, da cui forse non usciremo mai davvero.

  • “Titane” di Julia Ducournau – Corpo e identità

    (Articolo apparso per la prima volta su “Odissea” di Angelo Gaccione, pagina raggiungibile tramite questo link: ODISSEA)

    Rumore di ferro quando ancora lo schermo è nero. Poi, immagini di motori oleati, con la macchina da presa che soffoca lo spettatore: e sono tubi, e sono cavi. Stacco, ed è un automobile. Al suo interno, la piccola Alexia e il padre. Fa un rumore strano, Alexia. Gutturale. Un suono che imita il rombare dei motori. Nulla serve che il padre, viso da pitbull marchiato dall’infelicità – lo capiamo senza la didascalia dei dialoghi – di avere come figlia una figlia come Alexia. Che seguita nel suo mugugno. Finché il padre non si volta, fa un incidente e, per salvare Alexia, i medici le applicano una placca di titanio in testa. Titolo, e poi il film ha una nuova protagonista, l’Alexia adulta, giovane adulta, che balla su automobili da corsa in un night e che, al tentativo aggressivo di essere baciata da uno sconosciuto, risponde con la forcina, che infila dentro la gola dell’uomo. È bava, è morte, omicidio.

    Chi è Alexia? La placca di titanio, si intuisce, ha alimentato il di lei amore per i motori. A tal punto che Alexia ha un rapporto sessuale con una macchina. A nulla serve il tentativo di scavarsi nell’utero; aborto impossibile, è rimasta incinta. Le perdite: olio di motore.

    Quando, dopo un altro atto sessuale (stavolta una ragazza), uccide tutti gli invitati alla festa, Alexia è ricercata e deve sfigurarsi il volto rompendosi il naso (batte il volto contro il lavandino) per non più somigliarsi. Ma viene riconosciuta dall’immenso Vincent Lindon come suo figlio Adrien, da anni scomparso. Follia. Lindon è disposto a tutto pur di ritrovare il figlio, anche a fingere di averlo ritrovato.

    Lindon è il comandante di una caserma di pompieri dove Alexia/Adrien viene accolta. Ma tace, non parla e si fascia seni e pancia gravida. È un maschio, non può tradirsi, sebbene la moglie (o ex moglie) di Lindon non si lasci fregare, non sia come Lindon contagiata dal dolore a tal punto da annegare nella follia.

    Alexia trova ospitalità presso i pompieri. Ma il parto si avvicina. Lindon, depresso e malato (si inietta droghe per vivere nella natica ricoperta di ematomi), la assiste, dopo che, scene prima, le ha detto: “Sei mio figlio, chiunque tu sia, e lo sarai per sempre”. Almeno finché Alexia non muore per il parto, che ha dato alla luce un bambino con le ossa di titanio, che Lindon abbraccia sussurrando, volto alla macchina da presa: “Sono qui”, ripetendo: “Sono qui”.

    Panoramica degli accadimenti svolta, partiamo dal genere, dal concetto di cinema di genere. È stato forse Stanley Kubrick con 2001 e poi Ridley Scott con Blade Runner (e quindi, in letteratura, P. K. Dick, ma anche S. Lem per Solaris, da cui il capolavoro di Tarkovskij) a insegnarci che i problemi sociali necessitano di un filtro di fiction. Detto filtro appone una distanza tra il fruitore e il problema sociale, ma anche tra il problema sociale e chi, trasfigurandolo, immettendolo in una cornice di genere (che sia sci-fi come Scott o body horror come Cronenberg, maestro della Docourneau), lo disegna. Questa distanza è necessaria. È la stessa di cui parlano gli insegnanti agli autori alle prime armi che vogliono scrivere memoir. Solo la distanza, che in Titane è il body horror, permette lucidità di visione di ciò che, oltre la superficie, si narra. Docournau lo sa.

    Il corpo modificato (echi del maestro Cronenberg, Videodrome in particolare, con la pistola fusa al braccio nella celebre scena) del postumanesimo, la genetica manipolata sono pretesti per parlare dell’identità. Identità che è, fin dall’inizio del film, sessuale. L’androginia dell’attrice protagonista, corpo attoriale meraviglioso, un volto bellissimo nella sua imperfezione, che sarebbe piaciuto, forse, al fanatico delle facce Federico Fellini, ecco, l’androginia è sfruttata per creare contrasto e parallelismo coi corpi femminili canonici e i canonici corpi maschili che si presentano nel testo vincitore della Palma d’Oro. L’oscillare, poi, tra Adrien e Alexia (la prima metà, Alexia; la seconda, Adrien). Insomma, la fluidità. Non bisessualità, nessuna etichetta, al di là di ogni possibile inscatolamento sociale (auto)ghettizzante. C’è solo la liberazione dei sensi, che viene tradotta dall’autrice nell’attrazione di Alexia/Adrien per le automobili, con cui ha due rapporti sessuali.

    L’innesto della placca è come un secondo venire al mondo, un secondo parto. Al punto che, nella prima scena, uscita dall’ospedale, Alexia abbraccia l’automobile come una cara amica, forse sapendo che le automobili saranno più che amiche per lei, che saranno fonte di eccitazione insopprimibile, selvaggia.

    Tra i tanti temi del film, si può ravvisare quello tanto caro a Hirokazu Kore’eda: il binomio famiglia biologica/famiglia vera, perché è solo chi si prende cura di noi che abbiamo il dovere di dire famiglia. Anche nel morboso di Lindon c’è heideggeriana cura dell’essere straordinario che è Alexia/Adrien. Benché il meraviglioso Lindon – in un’interpretazione del tutto fisica, materica, corporale, coerente con l’etica-estetica del film – forse sia pazzo o forse finga, risulta essere il Bloom dell’opera, in un parallelismo col capolavoro joyciano, laddove Alexia è decisamente l’afflitto Dedalus che cerca un papà. E si trovano, Alexia (Adrien), fasciandosi con dolore il seno e il pancione, viene accolta in caserma, e la sua androginia turba la canonica mascolinità degli altri pompieri.

    È il conflitto tra corpi il nucleo di conflitto, la radice estetica del film, tanto quanto l’impossibilità di ridursi al sesso biologico.

    La metafisica dell’identità è vicina ai paragrafi sul corpo di Sartre e Merleau-Ponty, quindi un’identità che è ancorata alla carne, e questa carne, auspica la regista, deve essere fluida, libera. L’identità, sembra dire il testo, è continua mutazione (“Sono chi frequento”, diceva Breton nel suo Nadja); non è fissa ma soggetta all’interpretazione (lo sguardo lacaniano) dell’Altro, quindi figuriamoci se può coincidere con l’identità biologica, che non dice il Vero ma, al limite, dà inizio a un viaggio di scoperta dove l’approdo manca ma sono solo continue trasformazioni.

    Sicché il titanio è la metafora che supera il binomio maschio-femmina.

    Questo è il cinema necessario, il cinema veramente politico, che non si riduce alla cronaca ma è attuale nella sua universalità, un cinema necessario per i tempi che intercorrono e che realmente intercetta i bisogni e i dolori delle nuove generazioni, che sperano nel bambino dalle ossa di titanio che chiude un’opera che doveva essere realizzata.

    Aspettiamo il nuovo testo della Ducournau, che è appena stata in concorso a Cannes. Superarsi le sarà difficile.

  • Colpa e redenzione ne “Il collezionista di carte” di Paul Schrader

    (Articolo comparso per la prima volta su “Odissea” di Angelo Gaccione, pagina raggiungibile tramite questo link: ODISSEA)

    L’asse ontologico-formale dei film di Paul Schrader (e, ovviamente, di quelli che ha sceneggiato per il maestro Scorsese, tra cui Taxi Driver), è quello della colpa. Non è mai, la colpa, come vogliono credere i protagonisti di Schrader, un’esclusiva; è sempre tessuto, struttura, e quindi, nel discorso dell’autore, America.

    De Niro veniva elevato dall’America, al termine di Taxi Driver, a eroe, dopo la celebre sparatoria finale. Non si curava, l’America, del trauma causatogli con la guerra del Vietnam, né del dolore che Travis aveva a sua volta arrecato. Serviva una figurina da almanacco, e l’America l’aveva trovata in un uomo che – ricordiamolo – per il primo appuntamento con la ragazza che ama propone il cinema porno.

    Ne Il collezionista di carte, è un’America che omette, che protegge chi comanda e getta all’inferno chi esegue. Ma, come dice Oscar Isaac, questo non assolve. Non c’è niente, dice, che possa giustificarlo per gli orrori che, come carceriere militare – in sostanza, criminale – commetteva ai danni dei detenuti. Eppure, il personaggio di Oscar Isaac era stato addestrato al fine di estorcere con la forza informazioni che, a dire del capo (un sempre in forma Willem Dafoe, già protagonista per Schrader ne Lo spacciatore), i detenuti “per cultura” non volevano fornire, ma che avevano, bastava insistere. Erano, allora, nelle celle “guantanamizzate” nel 2002, botte, tortura dell’acqua, privazione sensoriale, riduzione alla fame, umiliazione sessuale. E, Oscar Isaac lo riconosce, lui era portato per quell’orrore. Era il perfetto americano pronto a macchiarsi e poi a farsi colpevole, portatore eterno di una colpa, ripetendo, non esclusivamente sua, ma per lui tale fino al momento in cui conosce il personaggio di T. Sheridan.

    È al giovane che Isaac pronuncia le migliori parole del film. L’ingiustificabilità. Il corpo che ricorda, che incamera. È tutto, Il collezionista di carte, un film della carne, anche quando esclusa volontariamente dal discorso. Sheridan è figlio di un altro militare dello stesso grado di Isaac. Incarcerato per nascondere chi comandava le prigioni, poi uscito dalla morte come violento, alcolista e, infine, suicida. La madre di Sheridan è fuggita; lui non la vuole più vedere. E, sempre Sheridan, vuole uccidere John Gordon, ossia Willem Dafoe.

    Con loro, Tiffany Haddish. Finanziatrice, lei, di Isaac, amica, amante.

    Tutto il film si svolge nel contesto del gioco d’azzardo, del blackjack. Una delle prime battute di Isaac è questa, parafrasando: Il blackjack è causalità. Ecco il determinismo morale, ecco l’analogia tra poker e vita, tra debito e debito morale, tra rischio e superamento della soglia.

    Ma, più ancora, il concetto di “deriva della forza”. Tutti possono andare in tilt – è Isaac in uno degli splendidi monologhi di Schrader. Quando il giocatore si esalta per le vincite e supera, per rischio, le sue reali possibilità. Quando, con maggiore sforzo – maggiore forza – si ottengono meno risultati. La prigione, in questo, insegna, dice Isaac. E lui la conosce la prigione: è stato dentro dieci anni per i crimini commessi e, prima, come carceriere, comunque dentro, nell’impossibilità di evadere dalle feci, dal tanfo, dal rumore.

    Sicché, ne Il collezionista di carte, via via che procediamo nello svolgersi del testo scopriamo sempre più di Oscar Isaac, di Willem Dafoe e della colpa di un’America malata, omertosa, dalla parte dei grandi.

    Sheridan, decide Oscar Isaac, non può uccidere Willem Dafoe. Per non farlo e andare a trovare sua madre, Isaac gli offre 150.000 dollari (esentasse). Ed è qui il fallimento della redenzione.

    Isaac ci viene presentato come metodico e depresso, glaciale e già per forza morto, schiacciato da un debito che, forse, non può saldare. La redenzione, sembra dirci il gesto della consegna del denaro, non è sua, non può essere sua, ma può essere data. Ma Sheridan, dopo aver accettato, rifiuta, e va a uccidere Gordo. Che è più svelto di lui, con le armi.

    E arriviamo a un finale assolutamente degno di Taxi Driver. Sheridan è morto, e Isaac deve sistemare le cose. Nei flashback del carcere (quello vissuto da detenuto, s’intende), lo vedevamo, oltre che contare le carte da poker, leggere Marco Aurelio. Regolare i conti con sé è regolarli col mondo che abbiamo contribuito a disorganizzare con la nostra colpa.

    Un colpo a testa: inizia Isaac; poi Dafoe; poi Isaac. Il genio registico vieta il tutto alla vista e una panoramica laterale ci svela il farsi del sole mentre, dalla stanza della casa di Dafoe, esce un Isaac quasi morto che, al telefono, denuncia un omicidio.

    E solo adesso, solo nella fine del debito, solo nei conti regolati – etica comprensibile e deprecabile a un tempo – può concedersi di amare. Haddish va a trovarlo e, dal vetro separatore, si toccano le dita, dopo che a lungo lei l’ha corteggiato trovando la pietra tombale di un uomo che rinasce solo quando, adesso, si interrompe il ciclo del debito.

    Il nuovo carcere – e quindi Isaac è un’altra volta detenuto – è sempre stato, forse, l’unico spazio. Che vieta, pregiudica ma, per alcuni – Isaac è tra questi – concede la vita.

    Perché l’obiettivo non è mai stato vincere. Chiede Haddish a Isaac perché giochi se non per soldi. Risponde lui: Per passare il tempo. E in carcere ne avrà, di tempo.

  • Note su “Paris, Texas” di Wim Wenders

    Articolo apparso su “Odissea” di Angelo Gaccione e reperibile al seguente link: ODISSEA

    Estimatore dichiarato del cinema di Ozu, Wim Wenders, financo nell’ultima fatica Perfect Days, ha fatto sua la poetica del piccolo, elevando l’infinitesimo: nell’immensità del creato, nell’impossibilità di noi piccoli uomini di afferrare il mondo complesso, produciamo bellezza nel muoverci al suo interno.

    È nel deserto che incontriamo per la prima volta Travis, interpretato da uno statuario e funebre Harry Dean Stanton. È una sagoma che si confonde nella sterpaglia, di tra le rocce. Un piccolo niente nel gigantesco niente che Wenders colora di ocra. Nel silenzio degli spazi infiniti (Pascal tanto ha da dirci su Wenders), è silenzioso l’uomo, che entra in una clinica ospedaliera nel mezzo di quel nulla e divora dei cubetti di ghiaccio dalla ghiacciaia. Per poi svenire. E rinvenire: qualcuno, dice il medico che lo assiste, deve avergli mangiato la lingua. Perché non parla? Conosciamo il nome: Travis Clay Henderson. Ma Harry Dean Stanton non dice una parola.

    È, il nostro, l’uomo senza radici, che nel vuoto si muove si confonde e si specchia. Ma non sempre è stato sradicato dai tessuti sociali, non sempre ha arrancato, barbuto e depresso, nel deserto. Per esempio, ha un fratello, che subito si mobilita, accorre sul posto.

    La recitazione di Stanton è ciò che fa del film qualcosa di inarrivabile. È il suo silenzio che regge tutta la prima metà di pellicola. Di lui parlano gli occhi esausti, i suoi modi che sembrano provenire da un disturbo post-traumatico, da qualche tonalità di autismo o da un trauma cerebrale.

    “Dove sei stato negli ultimi quattro anni?” gli chiede, in auto, il fratello. “Credevamo che fossi morto.”

    E Travis, le scarpe sfasciate che non coprirebbero i piedi quando venisse il freddo, tace.

    Scopriamo che, in questi quattro anni (che per lui forse sono pochi, ma sono tanti per un bimbo, sono “metà della vita di un bimbo”), del figlio di Travis, Hunter, si sono presi cura proprio il fratello Walt e la moglie Anne. “Ti ricordi tuo padre?” chiede Walt al telefono col bambino. E, nella scena successiva, la domanda è speculare: “Travis, ti ricordi tuo figlio?”

    E, forse, qualcosa si riattiva. Dov’era, Travis, mentre il figlio cresceva? Dov’eravamo mentre la vita accadeva? Forse della vita non ci credevamo degni, forse pensavamo di non meritarla, e ce ne siamo esentati.

    Una fotografia. Ritrae la località di Paris, nel Texas. È la prima volta che Travis parla: a Paris, i genitori fecero l’amore per la prima volta.

    Ecco il tema cardine: la ricerca. Quella delle proprie radici, quella dei fili col fuori che creano la trama della nostra ontologia privata. Quanto resta a un uomo sfatto quale è Travis è la foto di quando, come dice lui stesso, ha “cominciato ad essere”, una stellina, si direbbe, nel cielo, forse neanche concepito, ma voluto. L’animismo di Wenders, più carnale e meno metafisico che ne Il cielo sopra Berlino, vive nelle parole pronunciate nel film e in ciò che, lo sentiamo, le trascende e sovrintende, una sorta di assoluto che è il mondo, l’universo, di cui, vedremo, proprio Hunter parlerà.

    Dice che ha dimenticato il motivo, ma Travis aveva acquistato un appezzamento di terreno, a Paris.

    Walt l’ha riportato, frattanto, tra i vivi: Travis mangia, Travis parla, Travis guida l’automobile.

    La seconda parte del film, altra ricerca: quella del legame perduto col figlio Hunter. Refrattario a farsi venire a prendere a scuola dal padre biologico, abituato com’è, da ormai metà della sua vita, a vivere come genitori quelli che biologicamente sono zii.

    La scena esemplificativa di questa ricerca lenta, negli spazi incommensurabili, delle nostre piccole radici, è quella del filmato che Walt mostra alla riunita famiglia: è la genealogia, è l’origine su cui si getta luce. Cosa ci ancora alla vita e cosa, invece, ci riduce a silhouette solinghe nel deserto? Paris, Texas è un film sul ricominciare, sul ricostruire, in un cinema, quello di Wim Wenders, del nucleo puro, del candore brillante nel petto delle cose.

    Hunter dice alla madre/zia che Travis sembrava, a giudicare da come la guardava nel filmino, ancora innamorato della madre Jane.

    Il quale Travis, frattanto, cerca asilo presso la domestica, perché vuole avere “le fattezze di un padre” per poter fare da padre, ricominciare a fare da padre, come all’epoca del filmino, a Hunter.

    Altra scena che chiarisce, forse, gli intenti di Wenders, è quella in cui Hunter, con lucidità spiazzante, dice al padre Travis che “non l’ha mai sentito morto. Perché, anche da lontano, da qualche parte gli parlava”. E forse è questa la verità di Wenders: che certe radici non sono recidibili, nel bene e nel male.

    Abbiamo visto che il movimento del film è quello, insieme con la ricerca di sé, della resurrezione: si parte dal mutismo; si arriva alla parola; ci si eleva al rango di padri e infine si cerca la madre perduta. Cosa è successo fra Travis e Jane? Fino all’ultimo non si sa, ma il nostro la va a cercare, e Hunter vuole andare e va con lui. Jane si trova da qualche parte a Houston e riescono a intercettarla perché ogni cinque del mese deposita, su un conto intestato a Hunter, del denaro per il figlio. La seguono in auto. Lavora in un locale per uomini, costruito per cabine bipartite: da una parte, il cliente; oltre uno schermo di vetro che impedisce alla lavoratrice di vedere l’uomo, una bella ragazza.

    Due gli incontri: il primo è breve; il secondo è storia del Cinema. Nel primo, Travis accusa Jane, che non può vederlo e non ne riconosce la voce, di arrotondare vendendo il suo corpo, se davvero lì non si offrono servizi sessuali. E rifiuta di netto quando Jane propone di togliersi il maglione.

    Il secondo incontro ci dice del film la ricostruzione dell’ontologia privata, come dicevamo, a partire dai legami affettivi come fondamento di una soggettività altrimenti vuota. Continui sono i riferimenti ai genitori di Travis, che fanno appunto da base ontologica (Paris, in Texas) e, in più, i riferimenti alla nascita dell’universo del già colto Hunter, universo che si specchia (“come in alto così in basso”) nel singolare di ognuno. Paris, luogo dove i genitori di Travis hanno fatto l’amore per la prima volta, era anche il luogo designato dal protagonista per vivere con Jane e Hunter, e risulta essere dunque il polo di gravitazione dell’essere, in quanto principio e punto di approdo di Travis.

    Che si gira, dà le spalle a Jane che non può vederlo, e le racconta la storia di due innamorati separati da tanti anni di età, ma uniti da uno spirito che induceva loro a trasformare ogni cosa in un’avventura. Tanto che era avventura anche fare la spesa. Tanto si amavano che lui provava dolore a separarsi da lei quando doveva andare al lavoro, e perciò smise di lavorare. Ma quando i soldi finirono, lei cambiò, iniziò a preoccuparsi, e lui per converso, cominciando ad accusarla di tradimenti che non esistevano. Lui si mise a bere, e divenne scostante, e divenne violento. Finché non ebbero un figlio. Ma a quel punto lei era già un’altra persona, e delle volte credeva che il bambino in grembo fosse una maledizione. Un giorno, durante un litigio, lui la legò con la cinghia ai fornelli e andò a dormire. Com’era cambiato! Voleva, per la prima volta, essere lontano da lì, lontano da lei. Ma venne svegliato dalle fiamme e si precipitò verso le uniche due persone che amava, che però non c’erano più, e allora l’uomo cominciò a correre nel niente dopo essersi nella terra bagnata rotolato, e corse, corse, corse, per giorni, fino a lasciarsi dietro qualsiasi traccia di umanità.

    A questo punto, Jane scoppia a piangere. La storia è la loro, è chiaro. Jane dice che gli uomini che ha conosciuto, e che in quel locale ha servito, avevano tutti la voce di Travis.

    Ma per loro, dice Travis, non è più il tempo. Il nostro ha infatti lasciato detto al figlio Hunter che lo ama, ma che è stato troppo solo, e non riesce a fargli da padre. Nondimeno, Jane deve adempiere il suo ruolo genitoriale. Travis si fa promettere dalla vecchia amata che raggiungerà Hunter dove l’ha lasciato, in hotel.

    E così Jane fa. Paris, Texas si chiude con Hunter che abbraccia la madre senza timidezza alcuna, dicendole: “Hai i capelli umidi”.

    Il solitario uomo che vagava nel deserto è lo stesso uomo solitario che guarda la scena da lontano, per rimettersi in auto e inoltrarsi nel fiume delle genti che si sono perdute, che si sono dimenticate di loro stesse, ma che hanno avuto in dono i tempi supplementari sufficienti a fare del bene.

  • Note su “Dogman” di Matteo Garrone

    Articolo apparso su “Odissea” di Angelo Gaccione e reperibile al seguente link: ODISSEA

    Cinema

    di Marco Sbrana

    Note su Dogman di Matteo Garrone

    Prefigura, la prima scena, il climax del terzo atto. Garrone apre con il rauco abbaiare di un pitbull; luci, poi: il pitbull è bianco e un uomo magro, quasi smunto, dalla voce sottilissima, lo chiama “Amore” e lo invita a calmarsi. È Marcello nel suo negozio di toelettatura “Dogman”; Marcello interpretato da Marcello Fonte (condividono il nome, personaggio e attore). Marcello addomestica il pitbull, che smette di abbaiare.

    Sintesi cinematografica, sintesi formale. Garrone, osannato anche all’estero, dove ha prodotto lo sfortunato Il racconto dei racconti, costruisce in pochi secondi, quelli di apertura, il fuoco semantico del film tutto. La gabbia, l’animalità, la cura e l’irresistibile tenerezza di Marcello.

    Ci troviamo in un quartiere limitrofo che guarda la vita cittadina solo da lontano. È radura, è sabbia. Muove il film nei toni del seppia, scoloriti come il mondo che rappresenta, in una totale sovrapposizione di contenuto e forma. La puzza che proviene dai personaggi abbruttiti della borgata coincide con l’effetto grumoso di una forma, quella post-neorealista, che non si concede orpelli, e quindi – considerando il finale – neanche spettacolarizzazione della violenza. Perché, laddove la brutalità è narrata con brutalità, il sovrapporsi di contenuto e forma giustifica anche le atrocità che Garrone inquadra.

    Entra in scena l’altro protagonista, Simone, che pippa cocaina nell’attività di Marcello, contro il volere di questi.

    Ecco che Garrone definisce il tema del rapporto di potere. La sudditanza, la gerarchia, saranno al centro del testo.

    Marcello è un uomo che si sottomette alle lune storte di chi ha più muscoli; è uno sconfitto che si muove, figura magra, emaciata silhouette, in spazi derelitti come derelitto è il mondo che lo attornia. Ma, e questa sarà la forza del finale, Marcello è puro, incontaminato. Si prende cura della figlia adempiendo al dovere di padre separato; non rivendica; non si lagna della penuria. Si cura dei cani che sono figli suoi, i suoi “amori”. La subalternità del personaggio rende il corpo attoriale di Fonte perfetto: voce stridula, volto storto, come un Quasimodo senza gobba, debole, ferito ma sempre gentile.

    L’opera è pervasa da un generalizzato nichilismo: homo homini lupus hobbesiano nell’ecosistema del quartiere, da cui non si esce mai, che diventa la gabbia di Marcello e compagnia, come per i cani le gabbie dell’attività “Dogman”. Non una volta che Garrone conceda respiro. Mai che la camera si distacchi troppo dai personaggi; macchina che, invece, li segue ravvicinata, con l’effetto di sporcizia che si amplifica dal momento che ci vengono esposti con violenza i volti franti, alla Belmondo senza fascino, dunque solo fratturati e cagneschi, dei criminali borgatari.

    Nel mezzo dell’orrore che Simone incarna (è capace, quasi mostro della Universal, di spaccare a testate un’antipatica slot-machine che gli ha rubato i soldi), Marcello è il santo redentore, figura messianica pura e a tratti idiota, un misto tra il principe Myskin di Dostoevskij e un bambino che sembra aver visto solo gli aquiloni e che, pure nel fango, solo aquiloni vede.

    Ma il rischio della bontà è farsi trascinare, è l’impossibile “No”. Simone si presenta da Marcello e lo assolda per una rapina da cui Marcello non ricava che una collana valutata 150euro dal compro oro. In più, a fine “missione”, Marcello è dovuto correre a casa delle vittime, perché l’amico di Simone, il vero cane, il vero pitbull, ha messo nel freezer il barboncino che non quietava l’abbaiare. E Marcello lo ha salvato con acqua calda, massaggio cardiaco e alitate.

    Simone e Marcello approfondiscono il legame quando, per esempio, dopo il night club dove Simone l’ha portato (sempre facendo capire al nostro chi è il padrone e chi il servo), sparano a Simone e Marcello lo salva grazie alle competenze che mette in pratica coi cani.

    Colori seppia, realismo terminale, gli echi pasoliniani abbondano.

    Poi, il troppo.

    Simone vuole fare un buco nel muro della toelettatura per entrare nel compro oro. Marcello si rifiuta, lo conoscono tutti in quartiere, gli vogliono bene, è l’unica casa che ha. E Simone se ne fotte, gli promette denaro e, minacciandolo di mazzate, dice a Marcello di obbedire. Ma quando poi Marcello si ritrova a dover collaborare coi poliziotti, avveduti del fatto che il crimine è stato commesso da entrambi ma che Marcello è stato costretto, il Myskin proletario non fa il nome di Simone.

    È la dipendenza reciproca, è la paura di ritorsioni, è l’ancestrale e vetusto sentimento di “non dover tradire un amico”, anche quando questo amico ti minaccia e ti promette denaro che, quando torni in quartiere un anno dopo, non vuole darti.

    Per Marcello, dopo l’anno di carcere, la vita si è estinta. Sbattuto fuori da ogni bar e ostracizzato dai borgatari, ogni bontà in lui si spegne.

    Ha un piano, dice a Simone a cui ha appena regalato della cocaina purissima (Marcello lo rifornisce da una vita, acquistando la droga da terzi). Far venire da “Dogman” i trafficanti, e insieme pestarli quando si girano per pesare il carico. Simone accetta. Ma gli tocca anche accettare di nascondersi in una gabbia per cani. Reticenza; insistenza di Marcello; reticenza; insistenza di Marcello. Che finge i pusher siano arrivati per mettere fretta al pitbull che, forse odorando il sangue che verrà, si prepara a pestare, salvo prima chiudersi nella gabbia che Marcello serra con il lucchetto.

    Marcello non è più Marcello. La voce acuta è la voce di un uomo distrutto che ora distrugge, e che sevizia, e che tortura, perché ha subito troppo.

    Ma Simone è forte, riesce a liberarsi; Marcello, però, gli dà un colpo in testa.

    E lo cura (ecco di nuovo la simbiosi tra i due, il desiderio del piccolo Marcello, dello striminzito Marcello di farsi accettare dal titano), ma lo uccide anche, dopo che gli ha legato alla gola una catena infissa sul muro, quella per i cani più feroci.

    Brucia il cadavere, Marcello, e urla, verso il campo da calcetto dove i borgatari corrono, che ce l’ha fatta. Perché sì, per tutti Simone era un problema. Nessuno risponde. Marcello corre indietro, doma il fuoco, ritorna al campo e tutti si sono volatilizzati.

    In groppa il cadavere del ciclope, Marcello ansima nel vuoto, nel silenzio, e siede presso un cane, uno dei suoi amori, che Marcello non chiama “Amore” e che da Marcello si allontana.

    Dopo un primissimo piano, un campo totale. La solitudine di chi si è perso, di chi ha valicato il confine che i padri ci invitano a non superare mai.

    La vendetta compiuta coincide, per Marcello, con il suicidio della figura buona e scevra di malizia che abbiamo visto curarsi dei cani.

    Ora nient’altro che qualcosa che somiglia a quell’uomo. Ma che quell’uomo non sarà mai più.

  • “A proposito di Davis” dei fratelli Coen – L’eterno ritorno della sconfitta

    (articolo comparso per la prima volta sulla rivista “Odissea” di Angelo Gaccione a questo link

    ODISSEA)

    Un palco. Luce di riflettore su un volto giovane e già piegato. Barba incolta, ricci capelli scombinati. Oscar Isaac, ossia Llewyin Davis, ispirato alla figura mitica del musicista folk Dave Van Ronk, canta Hang me, Oh, Hang Me col dissapore di chi, iniziando, sa già di aver finito. Dopo l’esibizione, infatti, nel retro del locale che ospita le esibizioni, Davis viene picchiato a sangue da un misterioso uomo di cui non discerniamo il volto ma solo il cappello a tesa larga che porta in testa.

    E ci immergiamo nella depressione funzionale di un altro freak della letteratura dei fratelli Coen.

    A proposito di Davis è un film ambientato nel mondo della musica, precisamente la scena folk degli anni Sessanta newyorkesi. Lo spettro di Dylan, che vedremo, incombe; ma non è ancora il suo momento. L’eroe dei Coen è l’uomo che fallisce e che, nel fallire nuovamente, e nuovamente ogni giorno, fallisce meglio.

    Opera che sintetizza la poetica del perdente che attraversa Il grande Lebowski, passa per Fargo e raggiunge il bianco e nero de L’uomo che non c’era, fino al grottesco protagonista di A serious man, A proposito di Davis propone un viaggio spiraliforme nella settimana tipo del protagonista.

    Che un posto per dormire non ce l’ha. Dopo la primissima esibizione – e il pestaggio – lo troviamo che si cucina uova in una casa che non è la sua, e che spia, che abita da straniero, perché Davis è straniero, e lo è in ogni luogo si immetta. Il gatto degli ospiti corre fuori, sul pianerottolo, quando Davis si è chiuso la porta alle spalle. Davis dovrà tenerlo con sé, il micio.

    Llewyin has the cat, dirà Davis alla segretaria del professore, amico ospite di Davis.

    Che, sbagliando, ripeterà Llewyin is the cat.

    Llewyin è il gatto senza nome che, passo felpato, si aggira nella metropoli alla ricerca di un pasto caldo e di un modo per realizzarsi. Ma la casa discografica – amministrata da un grottesco uomo che, anziché denaro, vuole pagare Llewyin con il suo cappotto – non se la passa bene; e il disco di Davis non vende.

    Eppure, per tutta la durata del film, Davis ripeterà, sebbene non sia vero (ma forse è vero) che la musica è ciò che fa per vivere, è ciò con cui si paga l’affitto. Pertanto, quando, ritrovato il gatto in strada, tornerà dalla coppia ospite, sbraiterà nel sentirsi chiedere di esibirsi, come se fosse un pupazzetto. Anche perché, mentre canta, la moglie ospitante esegue la parte di Mark.

    L’altra parte del duo. Morta suicida. Gettatasi dal Washington Bridge.

    Davis ha due amici: Jim e Jean, felice coppietta. Non troppo felice, forse: Davis è perdutamente innamorato di Jean, con cui ha avuto una storia e che di recente ha messo incinta. Oltre alla sopravvivenza, oltre alla necessità di trovare un posto caldo dove riposare, perché una casa non ce l’ha, il nostro Davis deve anche risolvere il problema dell’aborto.

    Il fallimento è esistenziale, è un connotato quasi ontologico, una qualità esistentiva dell’ente, per i fratelli Coen, ossessionati da figure che si muovono a stento nel mondo, che dal mondo sono divorziati a causa della loro bizzarria, delle loro velleità, che li rendono emarginati, creature di frontiera in qualunque casa cerchino di stabilirsi. Il loser, per natura, non ha luogo dove sedere; così il nostro Davis. Indicativo è anche, nel testo dei Coen, il fatto che Davis sia un tutto tagliato a metà dal suicidio tremendo del presente-assente Mark.

    Dunque: il disco non vende; Jean deve abortire; le esibizioni non vanno bene; Davis non ha luogo dove dormire. E il gatto? Llewyin ha ritrovato il gatto sbagliato. Mentre prendeva un caffè con Jean, ha visto passare un sosia del felino, e l’ha preso. Ma è una femmina; il gatto fuggito, che Davis si è portato in braccio finché la bestiolina non è scappata dalla finestra di Jean, che ha ospitato Davis, ecco, il gatto fuggito è un maschio. Quello che Davis ha portato alla coppia ospite è una femmina.

    Where is his scroto?

    E si chiude così la prima parte del fallimento spiraliforme di Davis. Che, continua a dire, di musica ci vive. Anche se non è vero, anche se forse è solo una velleità che si è portato appresso dalla gioventù, a cui si è affezionato tanto da non liberarsene al momento opportuno, facendo sì che la musica diventasse interesse assorbente e condanna, roccia di Sisifo, speranza ridicola.

    Davis le tenta tutte, compreso un provino a Chicago, dove si reca in autostop, in macchina con John Goodman e il suo valletto, un poeta beat che cita a memoria Peter Orlovsky, tra eroina e sigarette che, malgrado la richiesta, a Davis non vengono offerte.

    E quando Davis si esibisce, così si esprime il produttore: I don’t see a lot of money here. Forse, dice il produttore, Davis dovrebbe tagliarsi la barba. Ha sempre suonato da solo? No, dice Davis, infreddolito, rattrappito, di cui sentiamo l’essenza, che è l’essenza dei cani smagriti in inverno, abbandonati sul ciglio dell’autostrada. No, dice Davis, avevo un partner. E il produttore: Ti do un consiglio. Tornate insieme.

    Ironia dei Coen, che è quella di Beckett: niente di più buffo, è Beckett in Finale di partita, dell’infelicità; ma è come quella barzelletta che ci hanno raccontato tante di quelle volte che adesso non ci fa più ridere.

    Altra ironia: il medico che dovrebbe far abortire Jean non fa pagare un soldo a Davis. Perché? chiede Davis. Lavora pro bono? No, è che l’ultima volta non ha fatto niente, e Davis ha pagato a vuoto. Ebbene, Davis ha anche un figlio.

    Ma prima ritorna dal padre, in RSA, presso cui si esibisce. Ma il padre è un corpo che secerne saliva e che, al termine della canzone Shoals of herring, libera l’intestino.

    E vano è il tentativo, per via di debiti accumulati, di mollare tutto e imbarcarsi.

    La vita è questa? sembra chiedere Davis, con gli occhi, a un Dio silente. La vita è veramente, come diceva Céline, inchinarsi ogni giorno alla stessa muraglia? Può essere così fallimentare qualunque cosa faccia? Sto venendo punito? Perché Dio non mi restituisce nulla in cambio del sudore che impiego affinché ciò che faccio (per vivere!) abbia un valore, in un mondo che premia solo chi è in grado di fare politica, di adulare i potenti e di produrre merce commercialmente valida e vacua artisticamente? La vita è una grande ciotola di merda, ha detto John Goodman in auto, e non ti ricordi di averne cagata così tanta, ha detto per poi sprofondare nel sonno dell’eroina.

    Un’ultima esibizione prima della fine.

    E il palco, dopo che Davis ha cantato, è occupato da un profilo che conosciamo tutti: quello del menestrello di Duluth, Bob Dylan.

    Davis esce e, di nuovo, viene picchiato a sangue dall’uomo nell’ombra, dall’uomo nell’ombra col cappello a tesa larga. Arranca, Davis, e vede l’aggressore perdersi nel traffico. E, nell’ultima scena, si rivolge a lui e vediamo Davis fare il saluto militare e dire: Au revoir.

    Composizione ad anello. Chiusura del racconto a spirale, quasi bernhardiano, che ruota su se stesso, nel quale l’inizio coincide con la fine, nel quale l’inizio dà avvio a un paesaggio identico a quello di ieri, e identico a quello di domani.

    Perché domani sarà uguale, ritorneranno le stesse fitte ai reni, ritorneranno le stesse botte, nell’eterno ritorno del fallire, il fallire di chi ha investito il sangue nelle sue velleità, e che adesso soffre il freddo perché di velleità non si può vivere. Ma in qualche modo, facendosi ospitare, scroccando, intrufolandosi, creando brecce di sopravvivenza laddove nessun vincitore riuscirebbe a crearle, perché troppo abituato, il vincitore, all’opulenza, ecco, in qualche modo si farà.

    E si fallirà di nuovo, come dice Beckett, e si fallirà meglio.