Premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 2016, Personal Shopper di Olivier Assayas decostruisce la ghost-story per restituire un film sull’elaborazione del lutto, che viene incapsulata nel genere (potremmo definirlo fantastico) salvo poi, nel finale, risemantizzare il testo tutto.
La protagonista è Kristen Stewart. La scelta della protagonista non è casuale. Personal Shopper gioca – a livello di fotografia – sulla desaturazione del colore; l’incedere drammaturgico è, invece, affidato a un ritmo lento e contemplativo. Il corpo della Stewart si sovrappone in toto all’estetica del film. Viene, la Stewart, valorizzata nei suoi tratti più androgini – perlopiù del vestiario – e nella sua (divenuta purtroppo proverbiale e fonte di divertimento) insofferenza. Di recente l’abbiamo vista diretta da Larraìn in Spencer. Stewart è sicuramente a proprio agio nel rappresentare il lutto di sé cechoviano, per via di occhi quasi sempre persi in divagazioni tristanzuole.
Personal Shopper è un film di fantasmi. La protagonista ha perso il fratello gemello Lewis e si reca nella casa da lui abitata per intercettarne la presenza spiritica. Perché Stewart è una medium che riesce a stabilire connessioni con i fantasmi. L’ingresso in casa, che apre la pellicola, è girato con un long take che nulla ha da spartire con il massimalismo di Birdman (A. G. Inarritu); è un long take contemplativo, lento, che ci introduce nella meccanica, nei gangli del film.
Fantasmi e medium sono imposti, accettati, non tematizzati, non problematizzati. Questo il patto che Assayas stabilisce con i ricettori. Non ci sono scene del tipo: “Ma i fantasmi non esistono!”. Sino al finale si dà per scontata l’esistenza di un mondo ultraterreno. E lo sforzo iniziale dello spettatore per accettare che in medias res la presenza dei fantasmi è ripagato, e necessario per assistere a quanto segue e al finale con lo stravolgimento.
Stewart sente una presenza già la prima notte; e si è formata una croce sul muro che prima non c’era. Il fratello Lewis, probabilmente. Ma già intuiamo: tutto è segno – non per lo psicotico, come vuole Lacan – ma per chi ne ha bisogno.
La protagonista è una personal shopper: incaricata di vestire un personaggio pubblico che “non ha tempo per le inanità”. Aderente all’estetica globale anche la scelta dell’occupazione, poiché, Stewart essendo incagliata nel lutto, diventa qualcun altro nel provare i vestiti della sua datrice di lavoro Kyra. E il contrasto tra l’attitudine di Stewart e quello di Kyra garantisce empatia con un personaggio, quello della protagonista, devastato dal lutto, dai cui occhi è stato prelevato il colore. Stewart, che veste maglioni e jeans, (ri)scopre la sessualità durante le ore di lavoro, dopo che il lutto – plausibilmente patologico – ha atrofizzato il corpo e del corpo le voglie.
La protagonista condivide con il fratello defunto la stessa malformazione che – per un caso rarissimo, sottolinea il medico che visita Stewart – ha provocato l’arresto cardiaco.
A posteriori, quindi dopo lo sconvolgimento finale, ci si accorge – magari a una seconda visione – di come la paura di fare la stessa tragica fine del gemello giochi un ruolo nell’ossessiva ricerca di segnali dal mondo al di là del nostro, quello degli spiriti che accompagnano, o tormentano, i vivi.
Stewart conosce l’amante di Kyra. Un uomo che oscuro è dire poco. A tal punto che, quando Kyra verrà trovata morta dalla protagonista, sarebbe più sensato pensare che dietro l’omicidio ci sia lui, ma in quel momento Stewart verrà travolta da uno sbattere di porta che la indurrà a pensare al suo Lewis.
In seguito, Stewart riceve messaggi insistenti che provengono da un numero sconosciuto.
Nel finale scopriremo che la ghost story non è stata altro che un espediente per rendere carne l’impossibile elaborazione del lutto. Sicché, se in un primo momento come ricettori avremmo risposto: Lewis alla domanda: Chi scrive quei messaggi?, al termine del film la domanda si riaccenderà e troverà nuove risposte. Che pure non sono pertinenti, che pure pertengono a un altro film, in qualche modo, il film ipotetico – e per fortuna inesistente – che dovrebbe spiegare i misteri disseminati in Personal Shopper alla luce della rivelazione finale.
La quale rivelazione restituisce il senso del film: un film sul lutto. Che frontalmente è trattato solo tramite la figura della ex fidanzata di Lewis, che ha un nuovo compagno perché “Non vuole vivere nel lutto”.
Atmosfere crepuscolari, assenza totale di colonna sonora, movimenti di macchina contemplativi, colori in desaturazione, volti smunti, dal dolore resi magri. Il film è un viaggio che costruisce un edificio che crollerà nel finale.
Kyra muore e la polizia interroga la protagonista, che si era recata a casa della datrice di lavoro per consegnarle dei gioielli acquistati durante una delle tante commissioni di cui Stewart è incaricata.
Un nuovo messaggio dall’inquietante numero sconosciuto: che la nostra si presenti in hotel. Così fa Kristen Stewart. E, in hotel, appena fuori, l’amante (l’uomo oscuro di cui sopra) viene arrestato. Il codice cinematografico è spesso implicito, com’è il linguaggio del cinema basato, certe volte, sulla sola giustapposizione di due o tre inquadrature. Ed è implicito che dietro i messaggi ci sia l’amante ora accusato e che poi confesserà l’omicidio.
Eppure, noi ricettori crediamo ai fantasmi fino all’ultimo. Anche perché, nella casa abitata da Lewis quand’era vivo, di fantasma ne abbiamo visto – ma, si badi, attraverso gli occhi uccisi dal lutto della protagonista.
C’è un duplice finale.
Kristen Stewart parla con il nuovo fidanzato dell’amica che nel lutto non vuole più vivere. Era egli amico di Lewis e, conoscendolo, non pensa ci sia nulla di impossibile, nemmeno i fantasmi. Si alza e Stewart rimane sola mentre, dietro di lei, una sagoma maschile compare giusto il tempo di reggere una tazza da tè, per poi volatilizzarsi e lasciare che la tazza leviti e si abbatta a terra.
Allora i fantasmi sono veri?
Forse, non è il caso di essere netti.
Di certo, così Assayas, i nostri fantasmi ci albergano nello sterno; quanto alle loro manifestazioni, la risposta non possiamo averla. Ma l’ultima scena è un suggerimento in questo senso.
La protagonista ha raggiunto il fidanzato Gary in un paese arabo. Una tazza levita. “Lewis, sei qui?”. Un colpo: vuol dire sì. “Mi aspettavi?” Un colpo. “Sei in pace?” Un colpo. “Non sei in pace?” Un colpo. “Mi prendi in giro?” Un colpo. “Sei un’entità maligna?” Due colpi: vuol dire no.
“Lewis, sei tu?
Lewis, sei tu?
O sono solo io?”
Un colpo. Luce abbacinante, lattiginosa. Titoli di coda.
Non è dato sapere – e se Assayas l’avesse svelato sarebbe scaduto nello spiegazionismo più becero – se i fantasmi e gli eventi apparentemente inspiegabili che hanno percorso Personal Shopper siano “stati Lewis” o “siano stati solo” la protagonista. L’unica cosa che Assayas si permette di dire è che sì, siamo solo noi. Non c’è desiderio di psicanalizzare, di diagnosticare malattie psichiatriche – comunque non improbabili – della protagonista; solo, così Assayas, il lutto consiste nell’accettare che ci vivano dentro le voci degli Altri che ci hanno forgiato con le loro parole e di cui siamo traccia anche postuma, perché – questo è Barthes – la comunicazione è immortale, sopravvive alla morte di uno dei due membri del discorso.
Non è importante stabilire – sebbene Assayas propenda, pare, per questa ipotesi, vista la carica che dà all’ultimo piano americano di Stewart – se la protagonista si sia immaginata tutto.
È importante – per noi e per lei – accettare che, indipendentemente dal fatto che si palesino in forme ectoplasmatiche o meno, siamo zeppi di morte, zeppi dei nostri morti.
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